Messinesi Illustri

 

 

'Viva Missina e l'Acula Riali,

finì la notti, mi sorgi lu suli...'

 

Dicearco da Messina

 

Nacque nel 316 a.C. a Messina da Fidia, ed egli fu uno dei più grandi discepoli di Aristotele. Nel 300 a. C. si dice anche che in Messana tenne un liceo, sullo stile di quello aristotelico in Atene, molto noto e frequentato. Si sa che fu profondo nella Filosofia, nella Storia e nelle Matematiche. Indagò molto e con acume la natura dell'animo umano e fu il primo ad applicare la psicologia allo studio della Psiche Umana. Scriverà infatti in uno dei frammenti ritrovati un'altra rivoluzionaria invenzione concettuale e cioè che la Vita "Attiva e responsabile" fosse superiore a quella contemplativa e che la decadenza è dovuta infatti ad un uso non ortodosso della ragione.  Inventa inoltre la carta geografica nel senso scientifico della parola. Si occupò anche della Mantica (Solo il sapiente può essere indovino), del Costume, dell'Etica, come indagine sui generi di vita dunque diventa, come già detto prima, forte sostenitore del prima della PRATICA sulla TEORIA. Fu anche narratore attento e preciso della vita di Pitagora, se oggi noi tutti conosciamo quasi menadito la Storia del pitagorico lo dobbiamo proprio al messinese Dicearco e ad Aristossene che sono state le uniche due figure, gli unici due biografi della vita del filosofo di Samo. Ecco che anche in chiave di storico Dicearco si fa largo nella storia della Magna Grecia Italiana. Pitagora, quest'ultimo personaggio, celato dal mistero delle sue pratiche conosciute solo ai suoi iniziati e famoso per aver inventato un teorema che ha accompagnato generazioni di alunni nelle scuole di tutto il mondo, non aveva segreti per il messinese che lo doveva conoscere molto bene soprattutto in tutte le sue sfaccettature esoteriche e iniziatice, infatti spesso in alcune opere Dicearco cita con grande entusiasmo il matematico di Samo prima e Crotone dopo.  Fu tutto pensate anche Medico, Giurista e Poeta celebrato da tutti gli antichi scrittori. Esso compose anche una Storia su Sparta, che quei re avevano pubblicato doversi leggere ogni anno pubblicamente per istruzione della gioventù.  Delle sue opere restano ai posteri solo pochi frammenti: Anima, Mantica, Vita pratica (in cui si riduce il valore della vita teoretica); significativi sono i saggi detti Tripolitico, Su Alceus, (At. 461; e) Stato di Grecia e Itinerario intorno al mondo. Importante  il cammino seguito da Dicearco, nell'ambito dei suoi studi geografici, infatti egli ricevette l'incarico di misurare i monti del Peloponneso e secondo Plinio, fu proprio da Dicearco che si seppe per la prima volta nella Storia che il Pelione era alto 1250 passi. Questo saggio sulla Descrizione della Grecia venne dedicato a Teofrasto. Il suo pensiero si allinea dunque a quello della scuola peripatetica durata diversi secoli - dal IV secolo a.C. al VI secolo d.C. - e strutturata come un v    ero istituto scientifico con ordinati programmi di studio. La curiosità legata allo strano nome ricevuto dalla scuola è inevitabile; infatti il Perìpato era il lastricato del porticato interno del Liceo di Atene: Aristotele teneva le sue lezioni passeggiandovi coi suoi allievi. Il progetto fattivo della scuola viene riflesso nel pensiero dei suoi adepti, che respingono l'atteggiamento della contemplazione in favore di una sistematica, concreta comprensione dei vari aspetti del reale. La sua Vita della Grecia è con molte probabilità la prima storia della cultura greca, dall'età mitica fino all'età contemporanea, orientata a rivalutare il progresso storico, con l'analisi dei vari accadimenti. Altri frammenti analizzano l'essenza della musica e il suo agire a livello fisico, anche curativo: ci lascia pensosi leggere pur oggi di giovanetti ritornare alla vita cosciente, dopo anni di stato comatoso, ascoltando una particolare canzone del loro musicista preferito. La musica veniva intesa da Dicearco in armonia con la stessa armonia dell'anima. Almeno un trattato su tale argomento ha scritto Dicearco, se ne ha traccia in Ateneo ( I, 14, d), e nella Suida:

"Obliquo, o canto nel vino. Come Dicearco dice nel trattato de' musici certami, tre sorta di canzoni vi avea: una che si cantava da tutti, ad uno ad uno gradatamente, l'altra, che si cantava da' più esperti, come avveniva per ordine, e quella che si chiama per l'ordine modo obliquo di cantare" (in I frammenti di Dicearco da Messina, a cura di Celidonio Errante, tip. Lorenzo Dato, Palermo, 1822).

I più grandi storici e scrittori come Cicerone, Plutarco e Ateneo, citano i titoli di molte delle sue opere e le lodano; sicché egli deve convenirsi che Dicearco da Messina fu uno dei più bei ingegni dell'antichità, degno discepolo di Aristotele, superiore forse - scrive Giuseppe Ortolani - a tutti gli altri suoi discepoli...

Così ci parla del suo pensiero Cicerone:

"...tramite il suo oratore afferma che l'anima non esiste, che è solo un nome e niente più, che è inutile ricordare l'esistenza degli animali, che in entrambi, nell'uomo e nella bestia, non v'è anima di sorta. La forza che ci fa agire, noi e loro, è parimenti presente in ogni essere vivente, e non si può separare dal corpo fisico, che ha vigore e sensi per dono di natura (...). (Tusculane)

Ed ancora l'illustre romano nel De divinatione ci consegna un frammento del pensiero del messinese:

"L'autorevole scrittore Democrito ha dichiarato più volte di ammettere la preveggenza, ma Dicearco il peripatetico ha negato ogni sorta di divinazione, esclusa quelli arrecata dai sogni d'ira" (I, 3, 5). E prosegue il parallelo di idee tra i due ad opera di Agathemerus: Per primo fu il dotto Democrito ad accorgersi che la terra è oblunga, con lunghezza una volta e mezza superiore alla larghezza; ed anche il peripatetico Dicearco è dello stesso parere". ( I; 1, 2)

Ateneo, invece si limita a riferire pagine usate, da Dicearco come cornice per inserirvi poi dei dialoghi d'argomento politico:

"Riguardo alla cena consumata dai compagni di mensa, Dicearco segnala quanto segue, nel lavoro intitolato Tripolitico: 'La cena è d'apprima servita ad ciascheduno separatamente, e ciò non causa divisioni di alcun tipo col proprio vicino. Dopo ciò si ha un dolce d'orzo abbondante come lo si vuole, e riguardo al bere una coppa è sempre pronta a lato in caso di sete. L'identico piatto di carne viene offerto a tutti in ogni evento: una porzione di maiale lesso.
Qualche volta, comunque, anche meno vien dato, a parte la carne del peso non superiore a 'cento grammi'. Altro non c'è, oltre questo, tranne ovviamente il brodo di detta carne, in quantità sufficiente a tutta la compagnia durante tutta la cena. Possono esservi una oliva, o del formaggio o un fico; occasionalmente si aggiunge qualcos'altro: un pesce, della lepre, del piccione o altro simile.
Dopo, quando essi finiscono in fretta la loro cena, girano per la tavola le cosidette epaikla. Ogni membro contribuisce alla mensa con circa tre mezzi
medimni di orzo, unità di misura Attica, e forse con undici o dodici brocche di vino; oltre a ciò con una forma di formaggio e dei fichi, ed inoltre, per disporre di carne, con circa dieci Aeginetan'".
(Ateneo; 141, a; op. cit.).
"Poiché Dicearco da Messina, il pupillo di Aristotele, afferma, nel suo libro Su Alceus che essi (i primi Greci; n.d.A.) erano soliti usare piccole coppe e bevevano vino misto a troppa acqua. Però questa è, a dire il vero, non una tradizione dei Greci, ma è una recente trovata appresa dai Barbari. E ciò a causa del loro essere digiuni d'ogni cultura, alla quale rimediano con l'uso di grandi quantità di vino e più cibo d'ogni sorta del necessario. Però nelle regioni greche noi non reperiremo mai una coppa che è stata costruita molto grossa, neppure dipinta e neppure (*; frammento perso; n.d.A.) in tempi più recenti; fatta eccezione per le coppe in onore degli uomini eroi". (461; a, b, c).

E sempre nel lavoro Su Alceo, Dicearco viene citato per confermare che il termine latages (gocce di vino rimaste nel fondo del bicchiere, n.d.A.) è termine siciliano. Se ne parla a proposito del gioco casalingo Cottabos, durante il quale gli invitati a pranzo lanciavano in direzione di un contenitore posto al centro della sala da pranzo, quanto rimaneva nelle coppe di vino.

"Il gioco del cottabos, principalmente, è una invenzione siciliana; i Sikelos furono i primi ad inventarlo, come Crizia, il figlio di Callescro, dice chiaramente in Versi Elegiaci, con tali parole: 'Il cottabos è il primario prodotto siciliano; noi ci predisponiamo a colpire un segnale con gocce di vino (latages)". (666; b). La difficoltà consisteva nell'imprimere il giusto moto alla coppa rimanendo sdraiati su di un fianco, e limitandosi a muovere solo il polso del braccio libero. Il movimento di lancio con piegatura del polso era detto ankylé.

 

Ed ancora Ateneo prosegue i suoi interventi citando anche Dicearco:

"Egesandro di Delfi nei suoi Commentarii, che iniziano con la frase, 'Nella forma migliore di governo', asserisce: 'Il giuoco denominato kottabos venne introdotto al loro simposio, e gli abitanti della Sicilia, concordando in ciò con Dicearco, furono i primi a praticarlo' (...)". (479, d).

L'opera che dà oggi fama a Dicearco è dunque Vita della Grecia, che inizia da una mitica età dell'oro - Età di Crono - per giungere al luogo comune pur oggi della decadenza umana del suo tempo, per la stoltizia degli uomini, gli unici responsabili dell'andamento delle loro vite e dell'agire del destino.

Nel Tripolitico invece sono raccolte costituzioni di stati greci, con una chiara trattazione dello stato perfetto, indicato in una sintesi delle tre forme politiche fondamentali, monarchia, aristocrazia e democrazia; da realizzare con l'attività concreta, mettendo da parte idee precostituite metafisiche, e mirando ad una costruzione razionale del suo mondo. Un esempio di analisi politica lo abbiamo anche con la Repubblica degli Spartani, della quale si tramanda che dovesse essere letta, per ordine del goveno, in piazza una volta l'anno a scopo educativo.

Nel Peri Psyches in contrasto con lo stesso Maestro Aristotele sostenne che l'anima è solo una forza vitale uguale per tutti gli essere viventi, ed è destinata a dissolversi dopo la morte. Ma in altre teorie venne in contraddizione con se stesso, sostenendo come per le idee sulla Mantica, una capacità propria dell'anima quando si trova in particolari condizioni.

Oltre libri di puro stampo filosofico scrisse Le Ipotesi dei Drammi di Sofocle ed Euripide e Itinerario intorno alla Terra.

Un Dicearco che si occupa anche di argomenti più leggeri ce lo riporta il solito Ateneo ( I, 14, d):

"Le danze per le opere di Omero sono in qualche caso eseguite da acrobati, ed in altri casi, sono accompagnate da giocatori di palla, la cui inventiva va a Nausicaa, a detta di Agallis (...) Però Dicearco assegna tale merito ai Sicioniani, nonostante Hipposus renda i Lacedemoni pionieri di questo come di tutti gli esercizi ginnici". (Ateneo, I Deipnosofisti, op. cit.).

Da ricordare è inoltre l'Itinerario intorno alla Terra, che è una autorevole opera geograficha, ma sopratutto ci mostra per la prima volta - prima di Eratostene - una carta dotata di due linee di riferimento, una sorta di accenno alla odierna suddivisione topografica in meridiani e paralleli. Ecco che si può tranquillamente affermare che Dicearco fu l'inventore dei nostri Meridiani e Paralleli.

Abbiamo elencato sin qui le opere di Dicearco, e non possiamo non notare che in esse la Sicilia e la sua realtà sono escluse: con Dicearco l'isola non è più davvero sede di colonie; oltre ad aver offerto nuove arti drammatiche, adesso è parte integrante della cultura del pensiero greco. I pochi frammenti che di lui rimangono testimoniano interessi culturali vasti e varii: storia, politica, geografia, musica, letteratura, e lo studio della personalità di alcuni grandi uomini. Il tutto era racchiuso in sei libri, seguendo la diffusa cornice del dialogo, tenutosi nelle città di Corinto e Lesbo. Il mondo degli dei era considerato con lo stesso atteggiamento di Evemero da Messina, suo concittadino, nato cioè da ricordi di avvenimenti storici vissuti da uomini reali. A ciò ha dato il suo impulso l'azione di Alessandro Magno, che col suo incedere per l'Asia ha allo stesso tempo allargato i confini geografici noti alla cultura del tempo con conseguenze culturali paragonabili a quelle derivate dalle imprese di uomini come Marco Polo o Cristoforo Colombo. Si sa che durante il cosidetto, erroneamente, periodo buio del Medio Evo la cultura classica venne messa in disparte; per dirla in un rigo, era impossibile conciliare il preponderante potere religioso, attivo come non mai in campo politico e sociale, col vario filosofare ellenico e con la disinvolta condotta di vita delle classi agiate greche. Essi adoravano dei dalla condotta di vita divina peggiore di quella praticata dal più materiale dei pensatori del tempo; l'unico traguardo che il dio pareva ponesse all'uomo era quella di vivere secondo il rispetto dei culti e d'una condotta di vita onorevole, in guerra più che altro. A ciò va aggiunto che le opere dell'epoca non rinunciavano a descrivere usi e costumi anche licenziosi, e molte pagine di simile tono rimasero ben nascoste, o furono rimesse in circolazione durante l'allargamento dei domini arabi, ove la cultura ed i suoi traguardi non avevano da sottostare ai dettami del culto; o per lo meno non come nell'Europa medioevale. L'unico valore che potè andare oltre i dettami del Cristianesimo fu quello del denaro, lucrato sulle vite di interi popoli come in Sud America; sono storicamente accertati gli sterminii in quelle nuove terre ( Leggi la Storia delle Indie di Bartolomeo de Las Casas). Siamo tentati di porre in relazione codesta colonizzazione con quella delle genti greche in Sicilia e nel Sud d'Italia ma non ne abbiamo i presupposti nelle fonti; però quando si parla di guerre, come quella che vide in campo i Siculi guidati dal principe Ducezio, non si trovano riferimenti ad eliminazioni sistematiche delle genti avverse; lo stesso Ducezio, sconfitto nel 450 a.C. venne esiliato a Corinto, libero al punto che potè ritornare alle sue lotte nel 446.

Valgono per tutte le cose prima dette le seguenti citazioni:

"Come dice Dicearco, Dario III fu accompagnato in battaglia da 360 concubine". (514, b; nota a)."'Così trecento donne lo accudivano', riferisce Heracleide di Cuma nel primo libro della sua Storia Persiana. 'Queste dormivano per tutta la durata del giorno, in modo da poter vegliare la notte, quando giocavano e suonavano con arpe costantemente, alla luce delle lampade, ed il re otteneva i suoi piaceri da loro, come concubine (...). Queste formavano la sua guardia del corpo, ed erano tutte Persiane di nascita, e portavano nell'inpugnatura dei loro giavellotti mele d'oro. Erano selezionate, un migliaio, per rango dai diecimila Persiani denominati gli Immortali'". (514; b, c).

Ed un frammento attribuito al messinese mostra un Re Alessandro sinora poco noto e pur sempre resoluto nelle sue azioni:

"Dicearco, comunque, nel suo libro Sul sacrificio di Ilio dice che egli era così travolto da amore per l'eunuco Bagoas che, sotto gli occhi dell'intero anfiteatro, egli cingendolo accarezzò Bagoas appassionatamente, e all'applaudire ed acclamare della folla, molto volentieri ancora lo abbracciò baciandolo". (603; b).


Fu un messinese a raccontare per primo la fondazione di Napoli!

Egli fu anche il primo a raccontare delle origini della città di Napoli dando coordinate e posizioni esatte dei luoghi, eccone un frammento che lo stesso filosofo messinese trasse da un altro Dicearco che in quel periodo si trovava a Messana, chiamato il Cumano, sicuramente parente dello stesso discepolo di Aristotele:

.. di lui appunto (1) mi è avvenuto di trovare questa testimonianza (2): "Nell' inverno del primo anno della settantasettesima Olimpiade (3), al cominciare del giorno nel quale il sole, sorgendo, irradia dal punto dell'orizzonte più vicino al mezzogiorno (4), essendo stati assoggettati alla giurisdizione cumana gli abitanti di Partenope, noi cittadini e soldati di Cuma, sotto la guida del nobile e saggio Ileotimo, figlio di Timanore, esperto nella sapienza di Pitagora, abbiamo risalito all'alba il sovrastante colle (5) fino alla sua vetta, allo scopo di prendere gli auspici per la fondazione di una nuova città in un sito più ampio ed agevole di quello che chiamano Euploia (6), ove è ristretto l'abitato di Partenope.
Al primo raggio di sole il nobile e saggio Ileotimo, arconte e sommo sacerdote, ha segnato con un regolo sul terreno appositamente e per largo tratto già spianato la direzione di quel raggio (7), dal punto di incontro tra la linea di mezzogiorno (8) e quella ad essa perpendicolare sulla quale il giorno e la notte si equivalgono (9). Ha fatto quindi di tal punto centro di un grande cerchio e unito con un tratto del regolo (10) i due incroci di esso cerchio con la direzione del sole e con quella equinoziale dalla parte di oriente. Ripetutosi dieci volte lungo il cerchio lo stesso tratto, è apparsa sul terreno la figura a dieci lati consacrata da Pitagora alla divinità che misura l'universo e simbolo della sua dottrina (11). Già in Partenope.... (12). Il nobile e saggio Ileotimo, guida del popolo di Cuma nel cammino della sapienza, ha mostrato essere questo un chiaro segno della benigna disposizione della divinità che governa il mondo verso la nascente città e da tal segno ha stabilito che si prendesse fausto presagio, imprimendolo nel suolo della nuova città col sacro vomere dei fondatori (13). A tal fine ha diviso in quattro parti il cerchio con le due linee solari (14), poi in otto, infine in sedici, e della sedicesima parte dalla linea equinoziale verso settentrione, dal lato di oriente (15), ha deviato il regolo, volendo che quella fosse la direzione rispetto alla quale, come a propria base, si sarebbe misurata la nuova città (16). Questo egli diceva di fare, deviando cioè il regolo di un sedicesimo di giro dalla linea equinoziale, perché i posteri riconoscessero che il fatto era avvenuto proprio nel giorno dell'anno in cui era avvenuto (17).
Quindi ha stabilito nella misura di sei stadi in piano sulla linea di base la distanza, dal luogo dov'era (18), del muro della nuova città e che questa avesse perimetro quadrato, ortogonalmente alla linea di base, assegnando a ciascun lato la lunghezza di cinque stadi. La parte della linea di base compresa tra le mura segnerà, secondo come egli ha prescritto, la "plateia" verso Noto (19); in sua corrispondenza si traccerà quella verso Borea (20), in modo tale che la linea equinoziale corra proprio da un estremo dell' una a quello opposto dell'altra (21): nel mezzo tra le due si farà la mediana, la quale sarà ad eguale distanza dai muri di Borea e di Noto (22).
Gli "stenopoi" (23) si estenderanno dal lato di settentrione a quello di mezzogiorno: saranno due, distanti dai muri come le due "plateiai" estreme. In questo modo ci sarà nel mezzo un quadrato: nel quale, mancando lo "stenopos" mediano, di questo solo un tratto correrà tra la "plateia" mediana e quella di mezzogiorno, per essere annuo gnomone (24).
Il punto medio della "plateia" di mezzo sarà il luogo dell' "agorà" (25), presso la quale sarà eretto un altare ai figli di Zeus, signori della luce e delle tenebre (26). Da tal punto come centro, infatti, se si conduce un cerchio toccando all'interno i quattro lati della città, su esso lo scostamento dello gnomone dalla linea di mezzogiorno segnerà luce e tenebre nel giorno degli auspici (27). Là, poi, dove il cerchio taglia la "plateia" di mezzogiorno dalla parte di oriente, il regolo di tanto devierà dalla medesima verso Noto di quanto il sole oggi al suo sorgere ha deviato dalla linea equinoziale(28). La strada che, così come il regolo, si disgiungerà dalla "plateia" sia sigillo impresso nel corpo stesso della città (29) dall'oracolo che ha consacrato Neapolis alla divinità misuratrice del cosmo (30).
Questo ho riferito, perché si sappia per sempre, io Dicearco, figlio di Archileo, cumano".

 

 

Evemero da Messina

Evemero visse probabilmente a Messina dal 340 al 260 a.C. e potremmo definirlo come un sociologo, forse il migliore dell'epoca oltre che acuto filosofo e osservatore degli eventi.  Evemero fu amico di Cassandro, figlio di Antipatro (generale di Filippo II di Macedonia che Alessandro aveva nominato reggente in sua assenza) e Re di Macedonia nel 306, e per lui svolse mansioni militari e diplomatiche ed è proprio per questo motivo che il poeta fece diversi viaggi, tra i quali uno attraverso l'Oceano Indiano; nell'isola di Panchea dove egli trova e descrive un sistema sociale basato sulla coesistenza di tre classi: sacerdoti ed artigiani, coltivatori, soldati: ciò egli lo riporta nella Sacra Scriptio (Registro sacro). Questa «Sacra Scrittura» (nel senso di "descrizione delle cose sacre"), Sacra scriptio o Sacra Historia era un'opera di filosofia politica impostata su uno schema utopistico (simile agli scritti di Teopompo ed Ecateo). Dell'opera abbiamo testimonianza dallo storico Diodoro, che ne ha riportato dei frammenti, e alcune parti nella traduzione in latino da Ennio, lavoro a sua volta pervenutoci grazie a Lattanzio: la versione originale consisteva di circa tre libri, i framenti che ci sono giunti sono 26. Quindi come Dicearco, Evemero ama raccontare in modo descrittivo e rigoroso la geografia dei territori esplorati e gli usi ed i costumi di quelle antiche popolazione. In questo si nota nell'animo dei due una grandissima voglia di scoprire ed il fascino per l'ignoto, così come per l'avventura e l'esplorazione. Da qui si evince di che pasta erano fatti i messinesi di un tempo. Il viaggio di Evemero inizia dall'Arabia e, dopo molti giorni di mare, fa capo all'isola di Panchaia. Lì incontra la mite gente adoratrice di Zeus Trifilio, che al dio aveva eretto un tempio su di un altissimo monte. Anzi, per la locale mitologia era stato Zeus stesso a costruirselo. Nel tempio vi era una stele d'oro, decorata con incisioni che illustravano le gesta di Zeus e dei suoi discendenti: Urano, Crono, Zan. L'isola era dotata di fertile suolo e di ricche miniere, ed era organizzata secondo i principi di una comunità da regole dettate da Zan. Ma ciò che attira è il voler mescolare di Evemero elementi mitologici, riferimenti filosofici - Platone- tradizioni di diversi popoli, creando un componimento dal tono romanzesco. Per egli gli dei hanno origine umana, saliti a gloria divina per l'affetto dei loro cari, o, nel caso di re mortali, divinizzati per la ricoscenza data loro dai sudditi; a ciò contribuì l'aver egli visto nell'isola la stele antichissima dedicata a Zeus, dove si narrava di gesta nobili compiuti da comuni uomini, per questo poi assurti a deità. Tale visione dell'intero universo religioso greco ebbe larga fortuna in Roma, venendo bene incontro alle pragmatiche, soddisfatte voglie di conquista dei romani - tale concezione prese il nome di evemerismo - e non contraddiceva quanto attuato in campo storiografico dai greci, di impronta razionalistica nella considerazione dei miti eroici tutti, da Ecateo in poi. E ciò come in Archestrato quindi, le cui idee amplificate e riorganizzate da Epicuro, furono amate dalla Roma patrizia.Evemero, come Teognide, deve aver avvertito che cambiamenti sociali erano in atto; vi era un affermarsi della borghesia sottraendo forza alla sempre meno solida aristocrazia. E si ha meno fede nei valori trasmessi dai padri, nei culti per le famiglie divine greche, e cresce la voglia di ritrovarsi in una società diversa, fondata su nuove regole che diano maggiori garanzie a chi si vede in politica ascesa. "Superno, figlio di Leto, voluto da Zeus, giammai ti dimenticherò" decanta commosso Teognide, reagendo al cambiamento. E chi invece si bea delle nuove prospettive addirittura viaggia lontano, sognando, trovando conferme ai propri nuovi bisogni. Tale "panta rei" dell'animo umano ha vari ricorsi nelle epoche che ci hanno trasportato il nostro oggi. Ciò basta a distaccarci dalle furiose lotte di ogni presente, il nostro non è migliore o peggiore d'altri, per suggerirci che i valori cui mirare sono perenni e quasi mai evidenziati dai contemporanei. In un'opera intitolata Hiera Anagraphe oltre a descrivere in moto utopistico uno stato ideale di tipo comunistico, sviluppò e diffuse nuove teorie secondo le quali gli dei sarebbero stati in origine i capi civilizzatori benemeriti degli uomini e da questi quindi divinizzati in segno di rispetto e riconoscenza.  Riprenderanno le sue opere Moro che lo fara' nel 1515 con Citta' del Sole e Campanella nel 1626. Dunque diventa perno fondamentale nello studio della divinità.

Altre informazioni interesanti su Evemero:

http://www.biblio-net.com/lett_cla/evemero.htm

http://it.wikipedia.org/wiki/Evemerismo

 

Alcimo da Messina

inventore della leggenda della fondazione di roma

Grande storico Alcimo, messinese colto e ben noto, ma la datazione della sua vita (spesa nel V o IV sec.a.C.) non è certa. Ci ha lasciato opere intitolate Sicilia, Italica e la Ad Aminta di soggetto filosofico. Chi era questo Aminta? Pare fosse un filosofo matematico di Eraclea, allievo di Platone, vissuto nel V secolo; oppure un altro filosofo vissuto nel IV secolo: ma sono tutte teorie basate su deduzioni logiche, non si hanno a tutt'oggi altre fonti chiarificatrici.

L'autore di Italica trattò la storia di Roma riferendo della leggenda di Romolo e Remo, della loro mitica nascita grazie alle cure di una lupa dopo il loro abbandono dopo la nascita: in questo il misterioso autore fu il primo storico a riferirlo. Il trattato dedicato ad Aminta era composto di 4 libri, ed abbiamo detto è di carattere matematico-filosofico, incentrato sulla supposizione che Epicarmo avesse con le sue enunciazioni influenzato il pensiero platonico nella elaborazione della teoria detta delle Idee.
Alcimo su Epicarmo.

"Dicono i sapienti che l'anima alcune cose senta per mezzo del corpo in quanto sente e in quanto vede, altre da se stessa discerne, per nulla servendosi del corpo: perciò le cose che sono si distinguono in sensibili ed intelligibili. Onde anche Platone diceva che quanti desiderano comprendere i principi del tutto devono prima discernere le idee per se stesse, come uguaglianza, unità, molteplicità, grandezza, stasi, movimento; in secondo luogo devono stabilire per se stesso il bello, il buono, il giusto e simili; in terzo luogo devono intendere quante delle idee sono relative ad altre idee, come scienza o grandezza o signoria (considerando che le nostre cose sono omonime delle idee per il fatto che ne partecipano: dico che sono giuste le cose che partecipano del giusto, belle le cose che partecipano del bello). E ciascuna delle idee è eterna, è una nozione, inoltre è imperturbabilità. Perciò dice pure che nella natura le idee stanno come archetipi e le cose del nostro mondo in quanto loro copie sono simili alle idee". (Diogene Laerzio, III, 12, 13; a cura di M.Gigante, Laterza, 1976).

Fortunatamente anche di lui Ateneo si ricorda, tra una 'portata' e l'altra alla sua tavola circondata da tanti ingegni.

"Alcimus, nuovamente, conferma nella sua Storia di Sicilia che l'ideatore di bazzecole simili a quelle attribuite a Salpa, nacque a Messene, situata di fronte l'isola di Botrys" (322; a, op.cit.).

Sarebbe bene per comprendere meglio il senso di tale frammento, leggere alla fine di questa la scheda di Ninfodoro. Nel mondo ellenico la fama delle donne d'Italia comprendeva anche la nomea che esse fossero astemie. E c'era anche un motivo storico-mitologico che lo giustificava; ne parla Alcimo:

"Alcimo Sikeliotos in quello dei suoi volumi che è intitolato Italiko asserisce che tutte le donne in Italia si astengono dal bere vino per il seguente motivo: 'Nel tempo in cui Eracle si trovava nella regione di Crotone si avvicinò ad una casa che era sul suo cammino; era assetato, e si fece avanti per chiedere un sorso per soccorso. Ora era avvenuto che, la moglie del padrone di casa aveva segretamente aperto un barile di vino, così ammonì il marito che sarebbe stata cosa strana se egli lo avesse violato solo per uno straniero; gli disse così di prendere dell'acqua. Eracles, sulla soglia di casa, assistette alla conversazione e (sperando che il padrone di casa non obbedisse alla moglie; n.d.A.) lodò il marito, e gli chiese poscia di andare a dare una occhiata al barile. L'uomo entrò dentro (la cantina; n.d.A.) e vide che il barile s'era tramutato in pietra. Ciò rimase emblematico sino ai nostri giorni tra le donne di quella regione, che il dissetarsi col vino apporta disgrazie per il motivo appena detto'". (441; a, b; op.cit.).

I misteriosi nostri connazionali, gli Etruschi, vedono qui squarciato un poco il buio che circonda le loro usanze, la loro vita quotidiana:

"Anche, e persino tra gli Etruschi, molti negozi vengono avviati e si ingegnano degli artigiani per tali commerci; similmente ai nostri barbieri. 'Quando si entra in tali negozi, essi si offrono con sincera disponibilità ponendo da parte la modestia, di fronte agli astanti. Tale usanza vige anche tra molti Greci d'Italia; essi appresero ciò dai Sanniti e dai Messeni. Nel loro lusso, gli Etruschi, come narra Alcimo, impastavano pane, praticavano la lotta, e accompagnavano coi flauti le flagellazioni. Le tavole dei Siciliani, inoltre, sono famose per il loro lusso; essi dicono che persino il mare delle loro coste è dolce, ciò perché molti godono del cibo che da esso vien prelevato; così afferma Clearco nel quinto libro delle sue Vite". (518; b, c).

 

 

San Eleuterio

(e Santa Anzia sua madre)

santo e vescovo messinese del II sec,

conosciuto anche con il nome comune di san liberale

o alla messinese "santu libiranti".

Nasce a Messina il 18 Aprile del 121, in Sicilia, proprio nella nostra bellissima città, il natale dei santi Martiri Eleuterio, Vescovo Illirico, ed Anzia sua madre. Egli, essendo illustre per la santità della vita e per il dono dei miracoli, sotto il Principe Adriano, avendo superato il letto di ferro infuocato, la graticola e la caldaia bollente di olio, pece e resina, essendo stato gettato anche ai leoni, ma da quelli per nulla offeso, da ultimo fu trucidato insieme colla madre. Santo, martire, i suoi resti sono all’altare di S. Lorenzo della chiesa di S. Sabina. Qui fu traslato, unitamente ai resti di S. Genesio, dalla chiesa di S. Giovanni della Pigna, per volere di Sisto V. Eleuterio, molto probabilmente, è da identificarsi con il martire Liberale (forma latina di Eleuterio) sepolto nel cimitero "ad clivum Cucumeris". La chiesa di Sant'Eleuterio fuori le mura a Rieti, fu edificata nel V secolo sul sepolcro dei corpi dei Martiri Eleuterio ed Anzia sua madre, trafugati a Roma da una spedizione di fedeli guidati dal vescovo Primo. In epoca longobarda doveva essere senz'altro la più importante delle chiese reatine dal momento che nel 747 vi fu accolto con solenni onori il re Liutprando. Raggiunse tuttavia il suo massimo splendore subito dopo il 1000 allorché l'abate Pietro, oltre ad un accurato restauro della chiesa e dell'attiguo monastero, la elevò a guida spirituale e morale dai fedeli infondendo loro nuovi fermenti di intensa spiritualità. La chiesa di Sant'Eleuterio era situata nei pressi dell'attuale cimitero di Rieti, vicino ad un ruscello. Nel 1122 il conte Grimaldo Gentili cedette la chiesa, il suo monastero e le sue pertinenze alla Cattedrale di Santa Maria. Il 13 agosto 1198 il vescovo Adolfo Secenari insieme a papa Innocenzo III vi trasferì di nuovo dalla Cattedrale reatina i corpi dei Santi Eleuterio ed Anzia e la elevò a titolo di collegiata con 12 canonici ed un abate rettore. Da notare che in Sabina nell'alto medioevo i corpi dei Santi venivano spesso portati al sicuro nelle Abbazie o nelle Cattedrali, per salvarli dai ricercatori di corpi santi e soprattutto dalle devastazioni saracene. La chiesa di Sant'Eleuterio fu sede di importanti sedute giudiziarie, placiti e diete. Tra gli altri vi tennero solenni placiti papa Alessandro II e l'imperatore Enrico IV, rispettivamente nel 1072 e nel 1084.
 

 

 

Leone II da Messina

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Elpide da Messina

Sorella di Faustina e zia  di S.Placido, compatrono di Messina, di nobilissima famiglia fiorirono sotto il regno di Teodorico. Sposò uno dei più grandi Filosofi del Tempo il romano Severino Boezio. Elpide è celebrata dagli antichi scrittori per le rare doti dell'animo e dell'ingegno e per le sue eleganti poesie latine. Nei Trionfi del Marito seppe conservare la sua natia umiltà, e fu per questo, e per la sua pietà gradita all'universale. La Chiesa si serve ancora degli inni sacri da lei composti in onore degli apostoli Pietro e Paolo. Nell'aula dell'antico Palazzo del Senato, si conservò fino al 1678, l'immagine di questa illustre messinese scolpita in tavola di marmo; lavoro assai ben fatto e delicato che recava in basso il nome di lei in caratteri greci. Poi nel 1721 questo ritratto fu portato nell'aula senatoria del nuovo palazzo. Fu sepolta in Pavia insieme al Marito nella Chiesa di S.Pietro in ciel d'oro dove ivi si trova un epitaffio latino che si vuole scritto da lei stessa. In quella stessa chiesa si trovano anche le spoglie del famoso filosofo e teologo S.Agostino. Morì nel 504. 

 

 

San Placido

santo messinese

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Eufemio da Messina

Nacque a Messina nell'ottocento circa e fu il primo ed unico Re di Sicilia chiamato "Imperatore". Liberò Messina e la Sicilia dalla dominazione bizantina e venne proclamato a furor di popolo sovrano del del popolo siciliano. Fu dapprima grande comandante d'arma della marina bizantina in Messina e Sicilia, ma nel 827 dopo il tradimento ai suoi danni del generale Suda, si mise a capo dell'esercito sconfiggendo e mettendo in fuga i soldati ed il più forte generale dell' impero romano d'oriente. Nei fatti avvenne che nell'827 Eufemio per sottrarsi ad una pesante pena, secondo le illazioni del Suda avrebbe rapito una monaca, inizia ad attuare una fase inevitabile di guerra attaccando e sfidando insieme ai suoi l'intero esercito di bisanzio presente nell'isola. Quella del generale romano infatti era stata solo un'abile mossa creata ad arte per sollevare Eufemio dal suo incarico perché ormai troppo ingombrante, scomodo e potente per la regia casa di Costantinopoli. Il grande combattente messinese divenuto Re, anche se brevemente, regnò per un anno così con grande ordine e benevolenza su tutti i popoli siciliani. Grazie a lui la casa reale siciliana fu posta sotto il suo comando a Messina. Ma già nel 831 Palermo non ribellandosi alla mano nemica decise autonomamente di sottomettersi all'arabo oppressore ed al contrario dei peloritani diede il benvenuto, nella propria città, ai Saraceni. Gli arabi vista la facile accondiscendenza panormita, fù lieta di spostare la capitale del Regno da Messina a Palermo. Le ultime città che con grande eroismo caddero vinte dal dominio arabo furono oltre che Messina altri due avanposti messinesi e cioè Taormina e Rometta che agli occhi di tutti i popoli siciliani mostrarono grande valore e dignità.

Per saperne di più sulla sua storia di Eufemio clicca qui

 

Guido Delle Colonne

poeta sommo tra i federiciani

e insigne giurista messinese

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Oddo Delle Colonne

poeta messinese

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Stefano Protonotaro

poeta messinese

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Jacopo da Leontini

poeta messinese

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Tommaso Calojra o Caloiro

Nacque a Messina nel 1302 e studiò a Bologna fino alla fine del 1324 o l’inizio del 1325. Poeta in volgare, dopo gli studi bolognesi trascorse la vita prevalentemente nella sua città natale. Tommaso Calojra dunque fu educato alle lettere e di buon ora scrisse lodati versi in lingua latina ed anche nella nascente favella Italiana. Studiò dunque giursiprudenza in Bologna, dove conobbe, divenne amico e compagno di studi del Petrarca. Fu perciò uno dei primi diffusori del nome petrarchesco in Sicilia. Ebbe una discreta corrispondenza epistolare con il poeta, che nel Trionfo d’Amore («volsimi a’ nostri, e vidi ‘l buon Tomasso / ch’ornò Bologna et or Messina impingua», IV, 59-60) lo include tra i poeti d’amore....

E poi conven che 'l mio dolor distingua,
volsimi a' nostri, e vidi 'l buon Tomasso,
ch'ornò Bologna et or Messina impingua.
O fugace dolcezza! o viver lasso!
Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi,
senza 'l qual non sapea mover un passo?
dove se' or, che meco eri pur dianzi?
Ben è 'l viver mortal, che sì n'aggrada,
sogno d'infermi e fola di romanzi.
Poco era fuor de la comune strada,
quando Socrate e Lelio vidi in prima:
con lor più lunga via conven ch'io vada.

http://www.letteraturaitaliana.net/PDF/Volume_2/t44.pdf

Tommaso è il destinatario di ben nove lettere Familiari, quasi sicuramente tutte fittizie, cioè scritte unicamente per la raccolta (Fam. I 2; 7; 8; 9; 10; 11; 12; III 1; 2). Autore del sonetto Messer Francesco, sì come ognun dice (a cui Petrarca avrebbe risposto con il sonetto estravagante Il mio disire ha sì ferma radice), Tommaso è stato ritenuto in passato il destinatario di alcuni sonetti del Canzoniere, cioè i Fagmenta 7, 25 e 26 (cfr. Lo Parco 1932, pp. 124-31). Ritiratosi a Messina, attese a scrivere Poesie di cui qualcuna esiste tuttavia. Dalle Epistole del Petrarca a lui rivolte si rileva che il Calojra ha compiuto parecchi lavori di cui non si ha più notizia. Morì a Messina nel 1341 a soli 37 anni ed il suo amico Petrarca lo pianse in Familiares IV, 10 e 11, rivolte ai fratelli del Caloiro, Giacomo e Pellegrino; la prima delle due epistole conteneva anche cinque distici latini che vennero apposti sulla lapide dell’amico come epitaffio:

Indolis atque animi felicem cernite Thomam, / Quem rapuit fati precipitata dies. / Hunc dederat mundo tellus vicina Peloro, / Abstulit hec eadem munus avara suum, / Florentemque nova iuvenem virtute repente / Succidit misero mors inimica michi. / Anne igitur grates referam pro munere tanto, / Carminibus siculum litus ad astra ferens? / Anne gemam potius simul indignerque rapinam? / Flebo. Nichil miseris dulcius est gemitu".

Il luogo dove si trovava la tomba in Messina   purtroppo è sconosciuto.

 

continua

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