EDMONDO DE AMICIS E MESSINA
Edmondo De Amicis prestò servizio militare a Messina e, tornato qui dopo quaranta anni, desiderò immortalare la città con la potenza della sua penna con parole, come era nel suo stile, di straordinaria bellezza.
È affascinante osservare come, nonostante il passare dei secoli, la Messina post-terremoto rimanga quasi identica nello "Spirito" a quella pre-terremoto, e ciò è dovuto alla resistenza al cambiamento dei messinesi.
La Messina pre-1908 è spesso idealizzata, ma come si rileva anche attraverso gli scritti di Dumas e Goethe, poco o nulla è cambiato nella mentalità della bella, seppur trascurata, perla del Peloro.
Messina dapprima subì l'ira spagnola durante la rivolta del 1674-78, poi il devastante terremoto del 5 febbraio 1783, che, sebbene poco menzionato, inflisse un duro colpo alla magnifica città medievale, danneggiandola gravemente, ma non distruggendola completamente.
Il terremoto del 1908 fu un ulteriore duro colpo, ma non fatale.
La vera rovina arrivò a colpi di dinamite per la speculazione edilizia e con la seconda guerra mondiale, quando la città fu bombardata senza pietà dagli aerei americani, diventando, come fu definita, "città fantasma". Infatti fu il capoluogo più bombardato dell'isola.
Questo testo di De Amicis vuole fornire oltre che la testimonianza di un grande scrittore del '900, anche uno scorcio della condizione di Messina nei primi anni del ventesimo secolo, e sui suoi secoli di storia millenaria.
De Amicis riassume in questo
diario del suo viaggio in Sicilia, la gloria e la decadenza della città
con una frase che riempie di gioia e di tristezza il cuore dei messinesi:
- "UNICA COSA È RIMASTA
IMMUTATA LA SUA BELLEZZA"-.
Ricordi d'un viaggio
in Sicilia
DA MESSINA A PALERMO
Non avevo più visto la Sicilia da
quarant'anni, niente di meno: dall'anno di grazia 1865, nel quale avevo fatto la
mia prima guarnigione, come si dice in linguaggio militare, nella città di
Messina, di dove ero partito col mio reggimento nell'aprile del 1866 per la
guerra contro l'Austria. E fu appunto Messina la prima città che rividi venendo
da Roma: con quale commozione, possono immaginare tutti coloro che hanno rivisto
dopo circa un mezzo secolo una regione della patria, a cui erano legati dai più
cari ricordi della prima giovinezza.
Quali mutamenti in questi
quarant'anni!
Basta dire che nel 1865 non c'era
ancora in tutta l'isola un chilometro di strada ferrata in servizio. Si stava
costruendo quella da Messina a Catania, e ricordo bene le grida di meraviglia
con cui le contadine messinesi, dai colli circostanti alla città, salutavano le
prime macchine a vapore messe in esperimento sulla linea, lungo la riva del
mare.
Ora, venendo dal continente, si
attraversa lo stretto senza discendere dai vagoni ferroviarii, che sono
trasportati da una riva all'altra sopra un piroscafo.
Le piccole città e i villaggi della
costa calabrese si sono ingranditi per modo che formano quasi una sola enorme
macchia biancastra da San Giovanni a Reggio.
Messina s'è innalzata su per i
graziosi colli conici che le sorgono da tergo, ed ha allungato le sue grandi ali
bianche lungo il mare fino a perdita d'occhi.
La mia antica piazza d'armi è
scomparsa sotto un nuovo quartiere elegante e ridente; le antiche vie, che già
erano ariose e linde, si sono arricchite di botteghe splendide; le piazze si
sono ornate di palme; la luce elettrica brilla da ogni parte; i tramway
percorrono l'interno della città e si spingon fuori fino al Faro, distante dal
centro parecchie miglia; e il movimento della popolazione, specialmente sulla
grande strada della Marina,su cui si stende una lunga schiera di grandiosi
edifizii uniformi, e pari ‒ in apparenza ‒ a quello delle più popolose e floride
città marittime del continente.
Eppure all'apparenza non corrisponde
la realtà.
La bella Messina, privilegiata d'una
delle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si
congiungono, posta quasi a contatto dell'Italia continentale e dotata d'un vasto
e sicuro porto naturale, è piuttosto in decadenza che in via d'incremento.
Singolare
destino della città!
Una parte della corrente vitale le è
stata detratta dalla vicina Catania, dove sorse un'attività industriale che a
lei manca, e da quella stessa piccola città di San Giovanni, che le sorge di
fronte sulla costa di Calabria,e che non era al tempo della mia giovinezza che
un piccolo villaggio.
Un’altra gran cagione di danno le fu
la perdita del privilegio del
porto franco
di cui godeva ancora nei primi anni dell'unificazione d'Italia.
Essa patì inoltre, e forse più d'ogni
altra grande città siciliana, i danni di cui si risentì in generale tutta
l'isola dopo il primo rapido sviluppo di ricchezza seguito al 1860: danni
prodotti dalla filossera, dalla chiusura del mercato francese, dall'aggravamento
spropositato delle imposte, dalla improvvida politica doganale del Governo
italiano, tutta rivolta a vantaggio delle industrie e degli industriali
dell'alta Italia e a scapito dell'agricoltura del mezzogiorno e delle isole.
Cosi è.
Con questa malinconica affermazione
ogni cittadino della luminosa Messina interrompe l'inno ammirativo che il
viaggiatore nuovo arrivato scioglie alla bellezza incomparabile della sua città
nativa.
Luminosa è l'aggettivo che mi è
rimasto nella mente congiunto alla sua immagine. Come biancheggiava
splendidamente fra l'azzurro vivo del mare e il vivo verde della lussureggiante
vegetazione che copre l'anfiteatro dei suoi colli e dei suoi monti!
A traverso l'aria limpidissima
apparivano cosi vicine le città e le borgate della Calabria da far pensare che
il grido d'un uomo vi dovesse giungere, e la tragica cima d'Aspromonte, ‒
Calvario di Garibaldi, ‒ soprastante a tutte le vette rocciose della catena,
mostrava nitida la sua fiera nudità colorata di viola, dolce e triste come il
sorriso dell'Eroe ferito, che perdonava ai suoi feritori.
Da una parte l'orizzonte del mar
Jonio, dall'altra l'orizzonte del mar Tirreno, l'uno turchino carico, l'altro
azzurro argentato; e su quello, al di la di Scilla, ancora la costa calabrese
seminata di villaggi, che si sfuma lontano in un color grigio e rosa
chiarissimo, somigliante a una lunga nuvola immobile.
Una veduta immensa,
serena,tranquilla. E sul finir di novembre vi circonda un tepore di primavera, e
vi carezza il viso un'aria carica di profumi confusi d'erbe, di rose, di aranci,
della quale ogni soffio vi fa fremere e sorridere come il bacio d'una donna.
Davanti alla giocondità e alla
freschezza di questa città d'aspetto cosi giovanile, che par sorta ieri per
incanto dal seno delle acque, ed è forse la città siciliana che serba meno
ricordi del tempo antico, quasi vi sembra favola incredibile la sua lunga storia
di guerre atroci e di calamità spaventose.
Quale strana e terribile storia di
tirannie,d'assedii, di invasioni, di pesti, di terremoti, dai pirati di Cuma e
di Calcide che la fondarono, alle guerre contro Siracusa, contro Atene, contro
Cartagine; e dai Cartaginesi ai Romani, dai Romani ai Saraceni, dai Saraceni ai
Normanni, agli Spagnuoli, ai Francesi, fino al formidabile bombardamento
borbonico del 1848 e all'entrata trionfale di Garibaldi dopo la vittoria di
Milazzo!
Periodi di libertà gloriosa e di
schiavitù miseranda,epoche di prosperità splendida come quella della fine del
secolo XV, e tempi in cui fu ridotta a poco più d'un villaggio, come verso la
fine del secolo XVII; e una nuova risurrezione nel secolo passato, e una nuova
decadenza nel presente: duemila duecento anni di vita, una
maravigliosa vicenda di distruzioni e
di trasformazioni, di catastrofi e di fortune: unica cosa immutata è rimasta:
“la sua bellezza”.
Ma non per questa soltanto ella è
attraente ed amabile.
I suoi cittadini presentano i
caratteri interessanti delle popolazioni di confine che modificano l'indole e i
costumi propri sotto l'influenza degli elementi forestieri con
cui hanno più contatti che le altre
genti del loro sangue.
Nei Messinesi l'indole isolana appare
in certo modo ammorbidita e levigata; l'animo loro si apre più facilmente con
gli stranieri, le loro maniere sono più cerimoniosamente cortesi, il loro stesso
dialetto e più largamente mescolato di vocaboli e di forme importate e meno
sicilianamente accentuato che il dialetto delle altre popolazioni dell'isola.
Un indizio della mescolanza del
sangue di questa città è il numero notevole dei biondi che vi si riscontra.
Chi conosce le altre città siciliane
avverte pure che vi è assai meno viva, che altrove, quella espressione di
curiosità scrutatrice e quasi sospettosa con cui è generalmente osservato
nell'isola il forestiero, che tutti riconoscono al primo sguardo.
E non di meno anche a Messina ciò che
colpisce più fortemente subito l'Italiano del Settentrione, venuto nell'isola
per la prima volta, sono gli occhi dei suoi abitatori.
Disse un illustre napoletano che,
venendo per la prima volta nell'alta Italia, gli parve che la gente non avesse
occhi: noi stessi abbiamo una tale impressione ritornando nel nostro paese dal
mezzogiorno; ma ritornando dalla Sicilia in particolar modo.
Oh quegli occhi siciliani così
profondi, così acutamente scrutatori, così pieni di sentimento e di pensiero,e
pur così misteriosi quando il loro sguardo non è spiegato dalla parola o animato
da una passione determinata,intorno alla quale non ci possa esser dubbio! Avete
già lasciato l'isola, molti ricordi di luoghi famosi e di spettacoli incantevoli
del suo mare e del suo cielo si sono già confusi nella vostra mente; ma
vedete
ancora quegli occhi, un balenio di pupille oscure come sparse per l'aria, che vi
dicono mille cose non ben chiare, e par che vi leggano nell'anima, senza
svelarvi l'anima che fiammeggia in loro. Sono esse veramente l'espressione
visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, cosi
difficile a definirsi, cosi vario in se medesimo, e pieno di contraddizioni, di
disarmonie e di lacune;
per cui disse uno scrittore
dell'isola che il siciliano <<pensa e sente come un arabo, agisce come un
greco,concepisce la vita come uno spagnuolo.>>
Strano carattere,violento e tenace
nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente
all'entusiasmo e allo scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e
pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo
sentimento individuale, che in altri popoli è il più grande propulsore delle
iniziative, produce l'effetto di far curvare l'individuo dinanzi all'individuo,
di far idolatrare la forza, di assoggettare le moltitudini a pochi padroni, di
perpetuare lo spirito del feudalismo nella politica,nelle amministrazioni, in
tutti i campi della vita pubblica!
L'uomo, dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili, è
capace di far miracoli; ma
gli uomini,
renitenti all'associazione e ai sacrifici che la concordia impone,sono
collettivamente inetti e infecondi.
Un grande errore è però il giudicare
il siciliano dalla collettività, come la maggior parte di noi italiani facciamo.
Egli ha tutto da guadagnare a esser
conosciuto individualmente e da vicino.
Lavoratore, ragionatore, padre di
famiglia,amico, ospite, egli si rivela tutt'altr'uomo da quel che pare visto di
lontano, nella moltitudine. Per questo c’è una grande diversità nel giudicarlo
fra gli italiani del Continente che hanno vissuto lungo tempo nell'isola e
quelli che non v'hanno mai posto piede o non vi passarono che come viaggiatori.
Questi sono ingiusti.
Questi pensieri mi sorgevano in mente
ogni volta che mi soffermavo a guardar lo Stretto nel punto in cui le due coste
sono più vicine. Che c'e di più maraviglioso di questo fatto?
Poco più di tre chilometri di mare,
che si attraversano in trenta minuti, e quel poco d'acqua divide le due terre
come un vasto deserto o come una formidabile barriera di montagne.
Passano continuamente quel breve
spazio, con la maggior facilità, migliaia di persone e carichi enormi di merci;
e quello stesso spazio mantiene quasi immutate per secoli diversità profonde di
idee e di costumanze, perpetua ignoranza e pregiudizi reciprocamente funesti fra
un popolo e l'altro, falsa e deforma mostruosamente le notizie dei fatti,
arresta il cammino di grandi fame, ed è causa che uno dei due popoli, che pure
ha con l'altro tanti legami di sangue, d'indole, d'interessi, di storia, senta
in sè un'indomabile tendenza a viver di vita propria, con leggi proprie,
considerando ‒ e non in tutto a torto ‒ come inconciliabili con la sua natura ed
esiziali ai suoi interessi la maggior parte delle istituzioni e delle norme che
reggono la vita pubblica nella terra posta quasi a contatto della sua!
Ed è forse appunto questa uniformità
forzata di leggi e d'obblighi, su cui si fondarono per tanto tempo tutte le
migliori speranze del suo risorgimento, e forse questa appunto la cagione
principale della persistenza delle sue miserie e dei suoi dolori!
Ma queste sue miserie chi potrebbe
mai sospettare viaggiando per quello splendido <<paradiso terrestre>> delle sue
coste?
Non ero mai andato per terra da
Messina a Palermo; feci questo viaggio in una giornata bellissima; ne fui
abbagliato e incantato.
Questo versante Tirrenico, che
rappresenta la quarta parte dell'area totale dell'isola, e contiene oltre un
terzo dell'intera popolazione, con una densità molto superiore alla media del
regno d'Italia, pure essendo meno maravigliosamente florido del versante Jonico,
compreso fra Messina e Siracusa, e per bellezza di paesaggio e per ricchezza di
vegetazione una delle piu ammirabili regioni d'Europa.
E’ una successione di golfi e di seni
dalle curve graziosissime,dominati da alti promontori dirupati, che si
specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole.
Si percorre il primo tratto, lungo il
mare, in vista delle sette isole dell'Arcipelago Eolio, che par che sorgano
l'una dopo l'altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e
leggere, tinte di colori soavi, d’un’apparenza quasi vaporosa.
E le pianure verdi, solcate da
innumerevoli corsi d'acqua, succedono alle pianure
verdi, i boschi ai boschi, i vigneti
ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati
di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d'avanzi di colonie greche
e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d'aranci,le siepi di fichi
d'India, le spalliere di aloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di
tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un'aria imbalsamata che vi desta
nel sangue e nell'anima un sentimento delizioso della vita.
E quante grandi immagini del passato
vi sorgono dinanzi da ogni parte!
Su quel ridente azzurro del golfo di
Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell'altre
acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta
l'armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d'Angiò; laggiù riportò
Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l'esercito
cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall'esercito greco di Gelone e di Terone.
A grandi lampi vi passa dinanzi tutta
la storia dell'isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e
sociale di tre continenti, e d'in fondo al passato immenso vedete sorgere
l'albore d'una speranza: poichè se l'Italia peninsulare, come fu detto con
felicissima immagine,è un braccio teso dall'Europa nella direzione dell'Africa,
la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità
quella affermata dal Fischer,ch'essa possiede una stoffa di colonizzatori di
primordine <<atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni
cielo.>>
Chi sa che nell'avvenire dell'Africa
non sia il risorgimento dell'<<organo prensorio>> d'Italia?
Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la
Conca d'oro, ecco Palermo!
DA PALERMO ALL'ETNA
Palermo è la città di Sicilia che
fece una più meravigliosa cresciuta dopo il 1860.
I Siciliani hanno ragione d'andarne
alteri.
E’ una grande città. Ma i nuovi
quartieri eleganti, le nuove vaste piazze alberate; i nuovi magnifici passeggi
pubblici, veri luoghi di delizie, degni di Parigi e di Londra, non hanno mutato
la sua antica fisonomia originalissima che è sempre costituita dalle due
interminabili vie diritte ‒ Macqueda e Vittorio Emanuele ‒ che s'incrociano nel
suo centro; e la sua bellezza più caratteristica è sempre quel centro, quella
piazzetta ottagonale dei Quattro Cantoni, che hanno quattro architetture uguali
d'ordine dorico, ionico e composito, coperte d'arabeschi e di fregi, ornate di
fontane e di statue: ‒ piazza, mercato, foro, cuore di Palermo.
A giudicare dal movimento di quelle
due strade, di cui una sbocca sul mare, l'altra è in direzione parallela alla
riva, si direbbe che Palermo è una città di due milioni d'abitanti.
Corrono in ciascuna, da un capo
all'altro e dalla mattina alla sera, due torrenti di gente, di carrozze,di
carri, di carrette, che continuamente serpeggiano per non urtarsi, che in mille
punti s'intrecciano e si confondono,s'arrestano, s'addensano, ondeggiano; è un
formicolio che vi confonde la vista, uno strepito che v'introna
la testa, una varietà di veicoli, di
carichi, d'aspetti umani, di gesti e di voci, un contrasto di allegrezza e di
furia, di fatica e di spasso, di lusso e di povertà, quale in nessun'altra città
del mondo credo che si possa vedere.
Ma è tutta uno spettacolo di violenti
contrasti questa stupenda e strana Citta’ dei Vespri e di Santa Rosalia.
Alzando gli occhi di mezzo alla
vegetazione magnifica che vi circonda nei giardini e nei parchi cittadini, dove
s'incrociano i viali fiancheggiati di leandri e di rose, e s'affollano le palme,
i platani, gli eucalipti, le più preziose specie di tutte le flore, vedete un
anfiteatro di montagne rocciose e nude, di aspetto terribile, che par che
guardino biecamente e minaccino tutta quella pompa ridente della natura.
Dal grande viale marino del Foro
italico,un vero passeggio da Sovrani, dove corrono centinaia di carrozze
aristocratiche, si riesce in pochi passi lungo la vecchia Cala, dove una selva
di brigantini, di paranze, di barcacce d'ogni più antica forma, siciliane,
napolitane, pugliesi, greche, vi rappresentano tutte le miserie e le calamità
della più avventurosa e dura vita marinaresca dei passati secoli.
Uscite da quell'enorme labirinto di
viuzze oscure e sudice, che si chiama l'Albergherìa, ove brulica una popolazione
poverissima in migliaia di fetidi covi, che sono ancora quei medesimi in cui si
pigiavano gli Arabi di nove secoli or sono, e vi trovate dinanzi a un <<Teatro
Massimo>> il più grande e più splendido teatro d'Italia, che costò otto milioni,
e di cui fu decretata la costruzione quando Palermo non aveva ancora un ospedale
che rispondesse ai suoi più stretti bisogni.
V’è prodigalità e magnificenza in
tutto ciò che colpisce gli occhi e può dar l'immagine d'una città prospera e
potente; ma all'apparenza non corrisponde la realtà.
Il popolo è povero e vive con una
frugalità anacoretica; una vera borghesia industriale non esiste; l'aristocrazia
ricca è assai scarsa.
Un'apparenza di splendore dà alla
città la passione del lusso, che è universale, e il fatto che Palermo attira con
la sua bellezza e con la forza centripeta delle sue tradizioni i Siciliani
danarosi d'ogni parte dell'isola.
Anche le da vita nella stagione
invernale una numerosissima colonia straniera, specialmente inglese.
Ed è a notarsi pure un vivo amore di
tutte le classi per la vita esteriore, per le passeggiate, per le feste, per i
ritrovi pubblici d'ogni genere; il che agli occhi del forestiero fa apparir la
popolazione duplicata.
Ho parlato di contrasti. Un contrasto
che compendia e spiega tutti gli altri è quello che vi si presenta qualche volta
nel Corso Vittorio Emanuele, quando d'in fra i palazzi e le statue e il via vai
festoso delle carrozze infiorate, vedete lontano, all'orizzonte del mare che
chiude la via, la macchietta nera d'uno dei piroscafi che portano via ogni
settimana un popolo d'emigranti. Poichè in quella regione dell'isola
principalmente l'emigrazione per gli Stati Uniti ha assunto in questi ultimi
anni proporzioni spaventevoli; in quella regione dove l'attaccamento degli
abitanti al luogo natìo pareva una volta così tenace da rendere impossibile
un'emigrazione importante.
Ci son dei piccoli paesi che si
vuotano quasi interamente; ci sono città ragguardevoli che hanno perduto quasi
un terzo della loro popolazione. E s’ha un bel dire che non la miseria assoluta,
ma i cresciuti bisogni e il desiderio d'un benessere prima non conosciuto nè
sognato son la vera cagione dell'esodo lamentevole: resta pur sempre che è
misera e triste la condizione d'un paese in cui le classi lavoratrici non
possono soddisfare i bisogni e le aspirazioni legittime che suscitano in esse la
civiltà progredita e la divulgata cultura.
Verità che paion sogni quando si
passa fra i ricordi di quel tempo in cui il celebre Sceriffo arabo Edrisi
chiamava Palermo <<il massimo e splendido soggiorno, la più vasta ed eccelsa
metropoli del mondo>> ed era veramente la più importante città dell'occidente,
il maggior centro politico del Mediterraneo, come nel mondo ellenico era stata
Siracusa.
Ma ben altri ricordi m’incalzavano
per le vie di Palermo.
E’ la Città dei Vespri, ma è anche la
Città di Garibaldi.
Chi può passare per tutta quella rete
di vie tortuose che si stendono fra Porta Termini e il centro senza rivedere la
terribile gloriosa fiumana delle Camicie rosse che v'irruppero la mattina del 27
maggio del 1860, inebriate della propria temerità e della prodigiosa vittoria?
E fu davvero un prodigio che
ingrandisce ancora nel nostro concetto alla vista dei luoghi dove fu compiuto.
Ottocento Garibaldini, seguiti da tre o quattro mila ragazzi siciliani male
armati o quasi disarmati, vincono un presidio di più di ventimila soldati,
munito di artiglierie potenti, sostenuto dal fuoco di quattro fregate, protetto
da caserme e da fortezze formidabili, padrone ancora di quattro quinti della
periferia della città quando la rivoluzione vi è già penetrata.
Che eroica epopea quella battaglia di
nove giorni intorno alle Porte e sulle barricate, fra i palazzi e i monasteri in
fiamme, nel bagliore degl'incendi di interi quartieri, saccheggiati e
insanguinati dal furore di vendetta d'una soldatesca feroce, sotto il fulminio
delle bombe e delle granate dei forti di Castellamare, che colmano le vie di
rovine e di cadaveri! A ogni passo vi sorge dinanzi l'immagine luminosa
dell'Eroe.
Ecco la piccola casa di Fieravecchia
dov'egli passò la prima notte dopo l'entrata in Palermo nella tragica ansietà
del domani, che poteva essere il fallimento disperato della sua impresa e un
eccidio orrendo di tutti i suoi.
Ecco il Palazzo Pretorio di dove egli
annunziò al popolo fremente d'aver respinto le <<ignominiose proposte
d'armistizio dei generali borbonici>> e deciso di continuare la lotta fino
all'ultimo estremo.
E là, nel Foro italico, è il luogo
dove, due anni dopo, passata in rivista la guardia nazionale, egli fece
impallidire tutte le autorità regie e cittadine che lo circondavano, lanciando
all'improvviso il primo grido della spedizione di Roma, tradotto poi nella
formula memoranda di “Roma o morte!”
E più oltre, sulla marina, e quella
storica casa di Ugo delle Favare, dov'egli fu ospitato nel 1882, l'ultima volta
che tornò alla sua Palermo, già segnato in viso dalla mano della morte, ricevuto
da una folla immensa, solennemente silenziosa, che comprimeva con uno sforzo
sublime di volontà la propria commozione per <<non recargli molestia>> e pareva
un popolo di larve addolorate intorno a un Dio moribondo.
O
grande anima di Garibaldi,come sei ancora viva e raggiante a Palermo!
Viva nel cuore del popolo sopra
tutto.
Per il popolo palermitano Garibaldi è
ancora il mito divino e caro di quei primi anni, il discendente di Santa
Rosolia, al quale la Santa stessa aveva dato quello scudiscio miracoloso,
ch'egli teneva sempre in mano, e con cui rimoveva da se le palle dei fucili e
dei cannoni borbonici.
Buon popolo veramente, che può avere
molti difetti, ma che possiede in grado eminente la virtù gentile della
gratitudine. Non perdona facilmente le ingiurie, perchè ha un fiero sentimento
di sè, e facilmente le vendica col sangue, perché è pronto all'ira, e l'ira
fulminea lo acceca; ma non dimentica i benefizi, e chi gli mostra stima ed
affetto ricambia d'affetto vivo e durevole.
Ne danno esempio i soldati
palermitani (e tutti i Siciliani, in genere,dei quali fanno quello che vogliono
gli ufficiali che li trattano con affabilità e con rispetto. Strano è che gli si
attribuiscono universalmente dei difetti che sono per l'appunto l'opposto di
certe sue qualità caratteristiche; cioè, di essere troppo verbosamente e
chiassosamente espansivo, mentre è piuttosto chiuso e taciturno; di essere poco
tenero della famiglia, mentre alle creature del suo sangue è affezionatissimo;
di essere tenace e implacabile negli odii, mentre è caso raro che compia una
vendetta a sangue freddo, e anche più raro che la compia a tradimento. Certo, è
geloso,ma perche ama con ardore veemente; è astuto, ma perche fu oppresso per
secoli da un nemico ‒ il feudalismo ‒ contro il quale l'astuzia era un'arma
necessaria alla difesa della vita e della coscienza; è superstizioso,ma perchè è
dotato d'un'immaginazione fervidissima, e perchè per secoli fu tenuto in
un'ignoranza barbarica, e quasi segregato dalla civiltà. E in compenso dei
difetti ha tutte le qualità, come disse uno scrittore francese, pertinenti alle
razze nobili; le qualità che non si possono sostituire: il cuore, l'entusiasmo,
l'intelligenza viva e pronta, lo spirito generoso e poetico.
Di qual sentimento della poesia sia
dotata questa razza lo dimostrano i suoi canti e le sue tradizioni popolari, ha
detto il Renan.
E di che profondo e delicato amor
proprio (capace, se ben governato, di dar ottimi frutti) essa sia compresa, si
può argomentare dal grande caso che fanno i Siciliani, e i Palermitani in
ispecie, dei giudizi degli stranieri, o anche più di quelli dei loro fratelli
continentali; dal rammarico che manifestano per i giudizi sfavorevoli, dalla
grande soddisfazione che lasciano trasparire per i giudizi che li onorano.
Questa preoccupazione d'esser mal
giudicati dai loro connazionali io trovai in loro comunissima, e mi commosse, e
mi rattristo anche un poco,come un segno di diffidenza dei nostri sentimenti
fraterni.
Ma non si può negare che sia una
preoccupazione giustificata da molte ingiustizie. Quanto è consolante il non
aver alcuna di queste ingiustizie da rimproverare a noi stessi quando il nostro
cuore palpita sotto la carezza amorevole dell'ospitalità siciliana, quando ci
sentiamo premere intorno, per le vie di quelle grandi e belle città, quella gran
folla piena di vita e di forza e di ricordi gloriosi,nella quale è riposta tanta
parte delle speranze della patria, alla quale ci legano tante sacre memorie dei
primi anni benedetti della nostra nuova vita!
L'immagine delle grandi strade
affollate di Palermo m'accompagno per tutto il viaggio che feci da Palermo a
Catania, attraversando l'interno dell'isola, e mi fece parer più solitaria e più
triste quella vasta regione, che m'era tutta sconosciuta.
Quale differenza fra l'interno e le
coste!
Le stazioni ferroviarie son quasi
tutte sperdute in una gran solitudine, come piccole fortezze sparse in un
deserto, a distanza di parecchie miglia dalle città e dai villaggi, che non si
vedono, o appariscono lontano,sulla cima di alture rocciose, quasi separati dal
mondo.
Per vastissime distese di terreno,
fin dove arriva lo sguardo, non si vede una casa, non un albero, non una siepe;
soltanto qua e là, a grandi intervalli, qualche contadino che ara la terra; e
quei pochi lavoratori paiono i superstiti d'una popolazione agricola scomparsa.
Valli dopo valli, monti dietro monti, è sempre quello stesso spettacolo d'un bel
paese che gli uomini abbiano abbandonato per effetto d'una maledizione
misteriosa.
E avrebbe la sua bellezza e il suo
incanto anche quello spettacolo se parlasse agli occhi soltanto; ma esso dice
all'animo nostro una cosa troppo triste perche la nostra immaginazione vi si
possa compiacere con quel vago senso di riposo e d'abbandono che suol provare
nelle grandi solitudini. E quella cosa è espressa in una parola antica e pur
troppo sempre viva, che riassume mille mali nell'enunciato d'un problema
formidabile:
il latifondo, la gran piaga incancrenita
dell'isola.
Il latifondo, che vuol dire la
campagna senza case coloniche e senz'alberi, e i contadini costretti a vivere
nei grandi centri, dove son sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere
esenti, e donde debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro;
il latifondo che favorisce il furto campestre, l'abigeato, il malandrinaggio, il
brigantaggio, e crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande
proprietario assente e il lavoratore abbandonato a se stesso; il latifondo,
funesta espressione economica, che, come disse un illustre statista siciliano,
filtrandosi, spiritualizzandosi per lungo abito di servaggio nelle menti, nel
costume, nella vita intima, separo le classi, le fortune, gli animi, e mettendo
in opposizione gl'interessi dei signori con quelli del popolo, e mantenendo
questo nell'ignoranza, riduce la maggioranza lavoratrice in condizioni di
minoranza legale di fronte ai suoi oppressori, prevalenti nelle Provincie, nei
municipi, in tutte le rappresentanze pubbliche, e quindi padroni d'ogni cosa,
tiranneggianti a loro beneplacito e perpetuatori della miseria.
Voila l'ennemi! come disse Gambetta. E i quarantasei
anni trascorsi dopo l'unificazione d'Italia non l'hanno punto smosso dalle sue
fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse
dare un crollo,non fece per contro che favorirlo, poichè di quei beni
s'impinguarono la borghesia e l'aristocrazia, creando un nuovo feudalismo
terriero in aggiunta all'antico, abolito soltanto di nome nel 1812. Il tentativo
di riforma fatto dal Crispi si spezzò contro un'opposizione minacciosa dei
grandi interessati, veri sovrani dell'isola. Nessun'altro uomo di Stato ebbe poi
il coraggio di ritentare la prova. Prima cura d'ogni Governo e di reggersi in
piedi,e per reggersi hanno tutti bisogno d'essere sorretti dai potenti. E le
cose non muteranno fin che non siano diventati potenti i deboli, fin che il
numero non sia anche la forza. Ma quando sarà mai, se la forza non è possibile
senza la concordia, e la concordia è tanto difficile nell'ignoranza, e riesce
tanto facile ai padroni seminar la divisione fra i servi?
Ma ecco uno spettacolo che rompe come
per magia il corso dei pensieri malinconici.
Lontano, nel cielo sereno, un'enorme
piramide azzurra s'innalza, solitaria, stendendo cosi largamente i suoi fianchi
da parere che ricopra una provincia intera; una montagna che dà l'immagine d'un
mondo; un prodigio di bellezza e di maestà, che vi fa aprire la bocca come per
lanciare un grido d'ammirazione.
Una nuvola bianca la corona; un manto
candido veste la sua sommità e si rompe più sotto in una quantità di strisce
simmetriche scintillanti che somigliano alle frange di un immenso velo di trina
ingemmato; in giro alle sue falde si stendono vaste macchie bianche, che paiono
strati di neve, e grandi macchie oscure, che sembrano ombre dense proiettate da
nuvole invisibili. E via via che il treno le si avvicina, la montagna par che si
dilati e imbellisca: le macchie bianche sono città e villaggi, le macchie oscure
sono boschi, aranceti e vigneti; da ogni parte sorgono ville, fioriscono
giardini, s'aprono strade, corrono acque, sorride la fecondità, splende la vita.
Che maravigliosa sorpresa e che gioia
dopo quel lungo viaggio a traverso ai latifondi disabitati e alla triste regione
zolfifera! ‒ Ecco l'Etna! ‒ mi dice un Catanese, mio compagno di viaggio ‒; ecco
la nostra gran madre benefica e sovrana tremenda!
CATANIA
La città di Sant'Agata e di Vincenzo
Bellini, si potrebbe chiamare, poichè l'autor della
Norma
vi è poco men popolare che la Santa gloriosa e soave, patrona
sua.
Ha il nome di Bellini uno dei più
deliziosi giardini pubblici d'Italia, da cui si vedono l'Etna e il mare; a
Bellini è dedicato il Teatro massimo, che è uno dei più belli d'Europa; nella
piazza maggiore sorge il suo monumento, opera magnifica del Monteverde; in una
delle principali vie è segnata d'una lapide la casa dov'egli nacque; nel Museo
dei Benedettini è conservata la bara nella quale fu trasportata la sua salma,
nel 1876, da Parigi a Catania; nella cattedrale, in mezzo alle tombe dei Re e
delle Regine, c'è la sua tomba: l'unica a cui sia superflua l'iscrizione. Quanto
è gentile questo culto amoroso della grande città siciliana per il dolce
maestro, morto nello splendore della gloria, all'età in cui per altri grandi non
è ancora incominciata la fama, e rimasto sepolto per quasi quarant'anni in terra
straniera! E come se ne rallegrano in cuore quanti italiani e stranieri visitano
la bella capitale orientale della Sicilia! Perchè è ancor vivo nell'anima di
tutti quegli che diede all'amore e alla mestizia il linguaggio della più dolce
melodia che abbia mai intenerito il cuore umano; e possono mutar scuole e gusti,
possono passar torrenti di nuove musiche e aurore e soli di nuove glorie, ma la
parola divina che egli ha parlato al mondo rimarrà eterna, ed eterno il suo caro
nome: caro nome che, mezzo secolo dopo la sua morte, noi non possiamo
pronunciare ancora senza un sospiro di rimpianto, come se a noi stessi fosse
stata rapita innanzi tempo la consolazione celeste della sua voce.
Catania, con le sue strade diritte
lunghissime, arieggia Torino, ma ha aspetto più vario e più gaio per il color
più chiaro degli edifizi e per il dislivello del suo suolo, composto in buona
parte di vecchie lave vulcaniche; il quale ascende verso l'Etna, sovrastante
alla città e visibile da ogni punto.
Chi la vede per la prima volta in una
giornata serena non si può capacitare che in una città cosi splendidamente lieta
possano infuriare tante tempestose passioni di parte, combattersi tante accanite
battaglie politiche.
Essa ha l'incanto della gioventù, a
cui brilla in viso la coscienza della forza e la fede nell'avvenire. E’ infatti
la città più florida della Sicilia. E non è di fresca data la sua prosperità
crescente.
Dopo il memorando terremoto del 1693,
che la distrusse tutta quanta, Catania rifatta venne prosperando continuamente,
e dal 1860 in poi è quasi raddoppiata la sua importanza.
Per giungere a questo essa non ebbe
che ad aiutare la sorte e la natura che l'hanno privilegiata d'ogni favore.
Situata quasi nel punto di mezzo
della costa orientale dell'isola, al lembo della più vasta e più fertile delle
pianure siciliane, alle falde del gran Vulcano fecondatore, intorno a cui
fioriscono le più svariate colture, essa accoglie in sé e manda fuori del suo
porto profondo in grande abbondanza ogni specie di prodotti agricoli e minerali,
e alimenta fra le sue mura, oltre alle generali industrie cittadine, una
quantità d'industrie speciali, che danno una straordinaria attività al suo
commercio e attirano Greci, Inglesi, Tedeschi ad accrescerle senza posa con
nuovi sfruttamenti e nuove imprese.
Ma non è città industriale e
commerciale soltanto: è ricca d'Istituti di beneficenza, possiede biblioteche
cospicue, e sede d'una delle maggiori Università d'Italia, in cui sono
laboratori rinomati di chimica e di fisica, d'anatomia e di zoologia, e
rinomatissimi di geologia e di mineralogia; ed è fra i primi d'Europa, visitato
da scienziati d'ogni paese, il suo Osservatorio Astronomico, in specie per
riguardo alla fotografia stellare, a cui è propizia la maravigliosa limpidità
atmosferica, e agli studi geodinamici, ai quali appartiene una collezione di
fotogrammi sismici, forse la più preziosa del mondo.
La popolazione di Catania è quasi
tutta di tipo greco,
dicono. Non sono in grado di giudicarne. Sara forse una
mia illusione: mi parve di vedere donne belle e bei fanciulli
più che in altre città di Sicilia.
Anche vidi generalmente
negli abitanti non so che di più vivace e di più
aperto, come di gente più contenta
della vita. Dell'ardore
e dell'impeto delle loro passioni può dare un'idea
verosimile, benchè esagerata, il loro valente concittadino
Giovanni Grasso, attore dialettale.
Il quale (aggiungo di
passata) ha in Catania un fratello non ancor ventenne,
esordiente nell'arte medesima, ma anche più vulcanico
di lui, e violento a tal segno che
quando in una scena
tragica si caccia le mani nei capelli gli si vede colare il
sangue giù per le tempia.
Anche hanno fama i Catanesi
d'essere appassionatissimi delle feste e d'ogni specie di
divertimenti; cosa che male si
concilia con la loro quasi
assoluta trascuranza del Carnevale. Vero è che di questo,
a Catania, secondo l'illustre novelliere Giovanni Verga, tengono luogo le feste
di Sant'Agata, che sono un immenso veglione, di cui la città intera è teatro.
Che rammarico non averle vedute! Esse hanno conservato l'antico splendore e
suscitano ancora l'entusiasmo antico.
La bara della martire amata è portata
in giro lungo le antiche mura chiusa in un tempietto sfolgorante; tutto il clero
le fa corteo; le tien dietro una processione interminabile di pesanti macchine
argentate e dorate e di giganteschi candelabri ornati di fiori e di bandiere,
reggenti ceri colossali; accompagnano la processione tutte le confraternite e
congregazioni pie, e corporazioni operaie e bande musicali innumerevoli venute
da tutti i paesi dell'Etna; e al suono delle Laudi alla Santa cantate da miriadi
di bocche mesce la sua voce enorme il campanone del Duomo; quel venerando
campanone, vecchio di sei secoli, e cinque volte fuso e rifuso fra il Trecento e
il Seicento, che già salutò le nascite e annunziò le morti dei re di Castiglia e
d'Aragona e pianse dopo quel tempo tutte le sventure e cantò tutte le gioie di
Catania.
Non solo l'ammirazione, ma anche la
gratitudine mi
condusse a visitare il poeta di
Lucifero, di
Giobbe, de
l'Atlantide,
il traduttore di
Lucrezio,
di
Catullo, e d'Orazio:
Mario Rapisardi, gloria vivente d'Italia, che io non
avevo mai conosciuto di persona. E
una dolce commozione, anche nella età giovanile, il veder per la prima
volta un fratello di arte, che già si ammirava e s'amava
da lontano; ma la commozione e molto più viva e profonda
quando questa prima visita è fatta nell'età in cui
l'uno e l'altro, già avanzati negli anni, sono tra i pochi
superstiti della propria generazione letteraria e
s'incontrano
come due vecchi soldati coperti di cicatrici, dopo
una lunga guerra combattuta sotto la stessa bandiera.
Sapevo che il Rapisardi era da lungo
tempo ammalato, me lo raffiguravo affranto di corpo e di spirito: fu per me un
disinganno lietissimo trovarlo in molto migliori condizioni di quelle che avevo
immaginato. Benchè malato, egli non dimostra i suoi sessantatre anni: e ancora
diritto nella sua alta statura, ha i lunghi capelli ancor nereggianti, e negli
occhi un'espressione d'energia vivacissima, tutta la fierezza dell'antico poeta
ribelle, fulminatore d'ogni superstizione e d'ogni tirannia, tribuno ardente
degli oppressi e dei miseri, apostolo battagliero di libertà e di giustizia. E’
una figura elegante e fiera di poeta
romantico del passato secolo o di rivoluzionario mazziniano dei tempi della
Giovine Italia. Quanto diverso nella conversazione
e nelle maniere dalla immagine che se ne fanno i suoi avversari, e anche la più
parte dei suoi ammiratori! Il <<bieco arcangelo fulminato>> ha la parola
affettuosa e il sorriso gentile; il poeta dal giro di frase ampio e sonante,
accusato di magniloquenza rettorica, non ha ombra d'affettazione nè di
linguaggio nè di modi; il letterato iroso e superbo parla dei suoi più acerbi
nemici con equità serena e ricorda le furiose battaglie critiche, da cui uscì
sanguinante, come cose d'un tempo remotissimo, delle quali non gli resti più
traccia nell'animo, ma soltanto nella memoria. E anche sorridendo parla della
scomparsa misteriosa del busto in bronzo che gli era stato eretto nel giardino
Bellini, e che non si potè più ritrovare: impresa compiuta senza dubbio da
volgari malfattori per istigazione o mandato di nemici politici, a cui la
glorificazione del poeta di
Lucifero
pareva un'ingiuria a Dio. Cessa di sorridere, però, e s'oscura in viso e fa
vibrare lo sdegno nella parola profetando che la viltà della borghesia liberale,
clericaleggiante per terrore dello spettro rosso, finirà col dar l'Italia nelle
mani del partito cattolico, il quale vi rifarà la rivoluzione a rovescio.
Nessuno direbbe che egli è infermo
vedendo come balena nei suoi occhi in quei momenti e vedendo come freme nella
sua voce l'anima del cittadino e del poeta. Eppure un'infermità nervosa,
d'indole non ben definibile resistente a ogni cura lo tiene da anni prigioniero
in casa, e gli rende impossibile ogni lavoro intellettuale prolungato; ciò che è
la maggiore delle sue afflizioni, anzi l'unica, poichè alla vita solitaria è da
lungo tempo abituato; anzi fu per tutta la vita un solitario. ‒ un sepolto vivo
‒ egli chiama se stesso. Ma tale non è chi ha ancora intera come nei più begli
anni la potenza del pensiero, benchè non più resistente a lunghi lavori, ne chi
si vede e si sente circondato dalla riverenza amorosa d'una grande cittadinanza,
che considera come gloria propria la gloria sua. Questo pensiero mi confortò nel
momento dell'addio; ma l'addio fu triste. Pensavo che forse dalla Sicilia egli
non si sarebbe mosso più mai e che in Sicilia io non sarei forse mai più
ritornato. Lessi nei suoi grandi occhi il pensiero stesso. Le sue ultime parole
lo espressero. ‒ Ci rivedremo ancora? ‒ La mia risposta fu l'espressione d'una
speranza che non avevo nel cuore. Ci baciammo come si baciano due amici che
partono in direzioni opposte per un viaggio senza ritorno. E uscii dalla casa
del maestro con l'anima piena di tristezza.
O mio benevolo lettore, che andrai un
giorno a Catania, ricordati di fare il giro della ferrovia Circumetnea, e dirai
che è il viaggio circolare più incantevole che si possa fare in sette ore sulla
faccia della terra.
Questa ferrovia che, girando intorno
al grande Vulcano con un tragitto di più di cento chilometri, allaccia fra di
loro tutti i più popolosi comuni delle sue falde, parve da principio un'impresa
utopistica, fu attraversata da mille difficoltà, e non condotta a termine che
nel 1895. Ora non si riesce quasi più a capire come non si sia fatta vent'anni
prima, tanti sono i vantaggi che ne ricavano i trent'otto paesi grandi e piccoli
fra cui è distribuita la popolazione dell'Etna; la quale ha una densità
superiore a quella delle parti più popolate della Germania.
E’ una ferrovia che attraversa un
paradiso terrestre, interrotto qua e la da zone dell'inferno, e che da Catania
donde parte fino alla costa dove si congiunge una strada ferrata del litorale, e
da questo punto fino a Catania, è tutta una successione di vedute meravigliose
dell'Etna e del mare, di giardini e di lave, di piccoli vulcani spenti e di
valli lussureggianti di verzura, di graziosi villaggi e di lembi di foreste di
quelle antiche foreste di querce, di faggi e di pini, che fornivano il materiale
di costruzione alle flotte di Siracusa, e che le eruzioni dall'alto e la cultura
dal basso hanno in grandissima parte devastate.
La strada sale fino ad altitudini di
oltre mille metri, discende, risale, passa attraverso a vigneti, a oliveti, a
vaste piantagioni di mandorli, a boschi di castagni; corre per ampi spazi
coperti dei detriti delle eruzioni, fra muraglie di lava alte come case, fra
mucchi di materiale vulcanico rabescato, striato, foggiato in mille strane forme
di serpenti e di corpi umani mostruosi, dove non appare un filo d'erba;
fiancheggia altri spazi dove la natura ricomincia a riprendere i suoi diritti
sulle ceneri e sulle scorie, già disgregate e decomposte dalla vegetazione
nascente; passa sopra eminenze fiorite da cui si vedono sotto in conche verdi
deliziose biancheggiar ville, chiesette, stradicciuole serpeggianti fra macchie
brune d'aranci, di mandarini, di cedri, lungo corsi d'acqua argentati che paiono
strisce di neve scintillanti al sole.
E durante tutto il tragitto è sempre
visibile l'Etna, ma in cento aspetti diversi, cangianti secondo la generatrice
del cono che essa ci presenta allo sguardo. La regolarità della sua forma
conica, quale si vede da Catania, non è che apparente. A chi le gira intorno
essa mostra successivamente enormi pareti dirupate, scalinate immense, piramidi
dietro piramidi, che riescono inaspettate come trasformazioni istantanee; appare
in qualche punto decapitata del suo cono supremo, in vari luoghi spezzata, ora
tutta bianca di neve, ora bianca sulla cima soltanto,qualche volta così diversa
dall'immagine fissa che se n'ha nella mente da far sospettare che quella che si
vede sia un'altra montagna da cui essa rimanga nascosta! E quanti mirabili
aspetti offre la sua cima ora colorata di rosa dal sole,ora ravvolta dal fumo,
che s'innalza a vicenda come un gigantesco pennacchio, o s'allunga da un lato
come uno smisurato gonfalone ondeggiante, o discende e s'allarga sui fianchi del
cono in veli candidi leggerissimi d'una trasparenza di trina!
E verso il termine di questo incanto
di viaggio si sbocca in faccia al mare, donde si vede ancora disegnarsi
lassù,sopra il candore delle nevi etnee, quanto resta dello smisurato castagneto
di Cento Cavalli, e dall'altra parte la bellezza sovrana di Taormina, quasi
sospesa nell'azzurro. Ed ecco infine la più meravigliosa costa dell'isola, sede
dei suoi primi abitatori; maravigliosa per la pompa della vegetazione e per la
poesia delle leggende: ecco il vago lido dove fu sbattuto il naviglio d'Ulisse,
dove approdò Enea, e pascolò le capre Polifemo; ed ultimo l'arcipelago dei
Ciclopi, le sette strane isolette rocciose, quella fantastica fuga di coniche
teste nere decrescenti d'altezza, che sorgono dalle acque, come teste d'una
famiglia di giganti sommersi, che rialzino la fronte per dare all'<<Isola del
sole>> l'ultimo addio.
O divina Sicilia! Quanti Italiani,
che hanno corso il mondo per diletto, morirono o moriranno senza averti veduta!
DA SIRACUSA A TAORMINA
Quale delle città decadute, o
scomparse, del mondo antico ha conservato, dopo Atene e Roma, una così vasta
fama come Siracusa?
C’è uomo in Europa o in America, tra
i meno colti delle classi non affatto ignoranti, il quale nel naufragio delle
memorie scolastiche non ritrovi quel nome, e legati con quello altri ricordi
confusi d'uomini grandi, di grandi fatti, d'opere meravigliose dell'ingegno
umano? E si può ben sapere che la grandezza della città famosa non è più ora che
nel suo nome; ma chi non la vide mai si avvicina con la mente così piena delle
antiche memorie che, arrivandovi, dal contrasto del suo stato e del suo aspetto
presente con la Siracusa della propria immaginazione riceve come la scossa d'un
disinganno, dal quale durerà fatica a riaversi.
Quella che fu un tempo la città più
famosa d'Europa per ricchezza, potenza, cultura ‒ la più vasta del mondo greco ‒
che aveva un’area maggiore di quella di Roma fra le mura di Aureliano e poco
minore di quella che ebbe Parigi sotto Napoleone III ‒ quella Siracusa contro
cui si spezzò la potenza di Atene, e a cui rimase per secoli legata la sorte
della Sicilia, da ogni parte della quale accorreva gente a stabilirvisi come in
una metropoli inespugnabile, predestinata al dominio del mondo ‒, non è più che
una piccola città ristretta in quella piccola Isola d'Ortigia, dove ebbe
nascimento or son ventisette secoli,una modesta sede di Prefettura di men di
trentamila abitanti, che ha per presidio due battaglioni di soldati e non ha
alcun giornale quotidiano.
Anche le sue vie maggiori sono
strette, fiancheggiate di case modeste, e le minori cosi anguste che le
carrozze, non potendovi passare, debbono fare spesso dei lunghi giri per andare
da un punto della città a un altro vicinissimo, dove un pedone si reca in pochi
passi.
Nell'aspetto degli edifizi,
nell'andamento della vita cittadina, nell'aria stessa degli abitanti c’è un non
so che di quieto e di raccolto in cui il vostro spirito si riposa come nella
serenità d'un villaggio tranquillo.
Hanno infatti fama i Siracusani
d'essere la più mite e gentile popolazione dell'isola.
Del passato non rimangono che poche
colonne d’un tempio di Diana, poche rovine di bagni, qualche casa dell'epoca
normanna.
Si può chiamare un resto del passato
la celebrata Fontana? La povera Aretusa, cangiata in sorgente da Alfeo
innamorato, che la inseguì dall'Elide fino in Sicilia, e chiusa in profondo
bacino semicircolare, piantato di papiri e occupato in parte da un giardinetto,
del quale un custode tiene le chiavi, e dove i buoni borghesi conducono i
bambini a veder guizzare i pesci rossi.
Eppure, che maraviglioso fascino
hanno ancora le antiche favole mitologiche! Voi vi trattenete la a guardar
quell'acqua, fantasticando, cercando intorno qualche cosa, non sapete che cosa,
e vi riscotete come da un sogno quando, nell'alzar gli occhi sopra la facciata
di una delle case di fronte, vedete annunziato che quella sera si rappresenta
Il Barbiere di Siviglia.
Ma questa Siracusa viva non è la
Siracusa vera.
La vera è quella grande Siracusa morta che le si stende di
fronte ‒ congiunta a lei da un ponte gittato sul mare ‒
sopra quel vasto piano calcareo, dove
sorgevano gli altri
quattro quartieri della citta: Acradina, Neapoli, Epipoli,Tiche:
vasto triangolo isoscele, di cui la base e bagnata
dal mare e il vertice e rivolto verso l'interno della Sicilia.
Non credo che ci sia al mondo altra
grande città decaduta
che abbia dinnanzi a sè una cosi meravigliosa immagine del
suo grande passato; non credo che esista un altro cosi ampio, cosi magnifico,
cosi solenne cimitero istorico com’è questo dei quattro quartieri siracusani
scomparsi; aspetto al quale scompare alla sua volta la città vivente, o quasi si
dimentica. Dico <<Cimitero>> poiché le poche ville sparse, i due o tre alberghi,
le due piccole
chiese di Santa Lucia e di San Giovanni e le case rustiche
qua e la disseminate sono come perdute nell'amplissimo spazio.
Le rovine colossali lo dominano
intero.
Dovunque volgiate il passo, anche per
i piani erbosi e fra i vigneti, dove le rovine non sono visibili, voi le vedete
ancora. Vedete le gradinate grandiose del teatro greco e dell'anfiteatro romano,
scavate nella roccia, in gran parte ancora intatte, immagine d'un lavoro quasi
sovrumano, che vi sgomenta e le pareti scoscese delle latomie profonde, e le
vaste gallerie delle necropoli, e gli acquedotti enormi, e gli avanzi delle
antiche mura dell'Acradina; e da tutti questi frammenti della sua ossatura
gigantesca la visione della città intera vi sorge dinnanzi, con la sua
sterminata cinta merlata e turrita, coi suoi porti affollati di navi, coi suoi
templi superbi, coi suoi arsenali, i ginnasi, i mercati, i bagni, i giardini;
immensa,bella e terribile, qual'era ai tempi di Dionisio il vecchio. La più
maravigliosa delle rovine e il forte d'Eurialo,
posto verso la punta del triangolo
rivolta ad occidente: una delle più ammirabili opere di architettura militare
dell'ingegneria greca: chiave della difesa di Siracusa; dove le muraglie del
lato sud si congiungevano.
Dovrebbero risonare e scintillare le
parole come colpi di scalpello nella pietra per descrivere l'aspetto di quelle
quattro torri poderose, di quei fossati profondi scavati nel macigno, di quel
cortile interiore dove si riconoscono ancora i ricetti dei cavalli e delle
macchine, di quella rete di passaggi sotterranei, dove s'ammassava la cavalleria
per le sortite improvvise. Tutto questo è cosi forte, cosi fiero, cosi
formidabile, cosi vivamente ed eloquentemente antico, che il primo senso
d'ammirazione vi si muta a poco a poco in stupore, e in qualche momento vi scote
un brivido come se la vostra vista intellettuale, per un miracolo, penetrasse a
traverso i secoli trascorsi, e le palpitasse davanti di vita vera la storia, che
non era prima per essa se non una visione di larve.
Di là andai sull'altura, poco
distante, che congiunge l'Epipoli, la parte più alta della città,ai monti
vicini.
E’ un belvedere incantevole: la riva
orientale della Sicilia,l'Etna, la costa calabra, tutto il contorno di Siracusa
antica,e il <<grande>> e il <<piccolo porto>> e i boschi di papiri delle sponde
dell'Anapo famoso.
Tramontava il sole: l'orizzonte era
d'oro, le acque dei ponti d'oro, tutto quanto s'alzava sopra la terra e sorgeva
dal mare disegnava le sue forme nell'oro.
Dev’essere stato un tramonto simile
quello che fece dire al Carducci: “Bello
come un tramonto
di Siracusa”.
Rimasi in contemplazione di quella
infinita bellezza.
E mi tornò alla mente un vecchio
amico napoletano, uno scienziato poeta, ardente d'entusiasmo per le grandezze
antiche; il quale, a Roma, m'aveva augurato il buon viaggio con un inno alla
città di Dionisio. ‒ Vada sull'altura di Epipoli ‒ m'aveva detto ‒ e volga in
giro lo sguardo: avrà un'allucinazione e vedrà un prodigio. Vedrà
venire sul mare Jonio le
centotrentaquattro triremi di Nicia e di Lamaco, e le giungeranno all'orecchio
le grida dell'esercito e del popolo siracusano, spettatori delle battaglie
navali dall'alto delle mura e dalle rocce delle coste. Vedrà arrivare dal sud le
flotte dei Cartaginesi e Imilcone ed Amilcare rizzar le tende sulle rive dell'Anapo,
vicino al tempio ancora biancheggiante di Giove Olimpico. Vedrà venire dal Nord
la flotta di Marcello, e i Romani scalare dal porto di Trogilo le muraglie di
Tiche, e invadere Neapoli e l'Epipoli, e gettarsi nell'Ortigia presso la fontana
Aretusa;
vedrà
tutto questo quasi con gli occhi della fronte, e
sentirà
passar nell'aria l'ultimo sospiro di
Archimede.
Io avevo sorriso allora di quella
preannunciata allucinazione. Eppure la esperimentai in parte, trovandomi, là,
sia per la vastità del campo delle memorie, sia per la quasi assoluta assenza di
circostanti edifizi moderni che mi distraessero; ma più per effetto del silenzio
profondo che mi circondava, e di quel mare luminoso e queto, non mutato dai
tempi,in cui era rapita la mia fantasia.
Sentii le grida dei ventiquattro mila
spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei
Persiani, e gli urli delle fiere trafitte
nell'anfiteatro romano, e i muggiti dei quattrocento tori sgozzati sull'altar di
Gerone in memoria della cacciata del tiranno Trasibulo, e i lamenti delle
migliaia di prigionieri ateniesi moribondi di fame e di sete nelle Latomie.
E vidi, si, vidi <<quasi con gli
occhi della fronte>> formicolare lungo la costa i sessantamila schiavi di
Dionisio,che costrussero in venti giorni cinque miglia di mura, e più lontano, i
marinai Siracusani, incatenar le navi schierate per imbarazzare l'entrata del
porto alla flotta di Demostene; intorno a me, qua e la, assorti come
nell'ammirazione del tramonto, uomini immobili e gravi, ravvolti in grandi panni
bianchi, che si voltavano l'un dopo l'altro man mano che io li chiamavo con voce
sommessa e tremante di reverenza: ‒ Teocrito! Mosco! Bacchilide! Simonide!
Pindaro! Eschilo!... un grido altissimo e prolungato passò per l'aria: in un
baleno la enorme città disparve, i fantasmi si dileguarono, il sogno dell'antica
grandezza svanì.
Era il treno della strada ferrata di
Catania che passava lungo il mare.<<Il sogno dell'antica grandezza!>> Sta bene,
purchè non si dica come lo sogliamo dire per consuetudine dell'animo contratto
nelle nostre scuole classiche, dove si canta un inno eterno al passato. C'era
forse maggior felicità in quella grande Siracusa antica di quello che ce ne sia
nella piccola e modesta Siracusa sopravvivente? Non era forse vero in quella più
che in questa che la vita,come disse un grande poeta, e una festa per alcuni ed
un duro peso per quasi tutti? La grandezza era pagata a prezzo di stragi inumane
e quasi continue, di orribili guerre, non contro gli stranieri soltanto, ma
contro genti dello stesso sangue e della stessa terra. La prosperità era
mantenuta col dissanguamento delle città soggette, comandate da piccoli tiranni,
strumenti ciechi del maggior tiranno. A brevi periodi di libertà disordinata si
alternavano lunghe dittature crudeli. I grandi monumenti d'arte di guerra erano
frutto di fatiche inumane di migliaia di esseri equiparati alle bestie.
L'arte era fiorente e onorata; ma
Dionisio cacciava in carcere il poeta Filosseno perché aveva criticato i suoi
versi, e un nemico vittorioso distruggeva in pochi giorni o predava e portava in
altre terre l'opera gloriosa di generazioni e di secoli.....
Non ricordo nella mia vita di
viaggiatore ore più deliziose di quelle che passai la sera sulla terrazza del
grand'albergo Politi, che sorge nell'Acradina, sopra la Latomia dei Cappuccini.
Ah, questi alberghi, queste ville
signorili che si alzano sopra le rovine antiche, e v'inaridiscono la sorgente
più viva della poesia, che è la solitudine!
La famosa Latomia è diventata come un
annesso all'albergo, dove scendono signore e signorine a godere il fresco di
giorno, e di notte i contrasti delle ombre e dei raggi di luna; sopra una delle
rocce che vi si innalzano in mezzo è stato fatto un piccolo giardino pensile,
dove si va a prendere il caffè; nei silenzi della profonda
cava, piena di memorie terribili, si
spandono le note d’un pianoforte, e quelle delle canzonette napoletane con cui i
musici girovaghi vengono la sera a rallegrar gli avventori.
Che stonatura e che profanazione!...
Ma ho forse diritto di protestare io
che ne fui complice?
Era così bella di notte, vista da
quella terrazza, Siracusa, che pareva galleggiante sul mare, tutta scintillante
di lumi, solitaria e silenziosa in mezzo alle acque che riflettevano il
firmamento splendido; vicinissima, e pure in apparenza lontana, e queta come se
dormisse, sognando i suoi duemila e settecento anni di storia!
E sembrava che fossero suoi respiri i
soffi d'aria molle che venivano a quando a quando nel viso, portandomi il
profumo delle rose delle ville vicine e il sentore acre della vegetazione
selvaggia lussureggiante sulle rocce di sotto!
Che dolce notte,che tepida
primavera,che divina chiarezza di cielo e di mare! E quanto m'appariva lontana
la mia Torino, che vedevo in quei momenti come una città del più remoto
settentrione, tutta bianca di neve e avvolta nella nebbia, quasi perduta ai
piedi d'una catena di montagne di ghiaccio; dove non mi sarei ritrovato che dopo
settimane e mesi di viaggio!
Fu quella la stazione più lontana del
mio viaggio.
Al ritorno non mi restava a vedere
che Taormina, che e a mezza via fra Messina e Catania. Ma non si spaventino i
lettori: non avranno ancora da subire la descrizione di quel famosissimo teatro
greco, in cui e la scena meglio conservata di tutti i teatri antichi, e che e
per se stesso il più meraviglioso bel vedere d'Italia.
Tutti ne avranno letto qualche cenno
descrittivo in occasione del recente viaggio che fecero in Sicilia i Sovrani di
Germania, i quali manifestarono per Taormina una viva predilezione.
E poi, che è mai il teatro dell'arte
in confronto a quello della natura?
Quello che si vede dalla sommità
della gradinata, e proprio dal punto che prospetta il mezzo della scena,è uno
spettacolo di cui non ha l'eguale né Napoli, nè Rio Janeiro, nè Costantinopoli.
Sotto, la piccola città ridente, che
si stende ad arco fra i mandorli, gli aranci, i cactus, i pini; a tergo della
città, un semicerchio di monti che slanciano al cielo i vertici rocciosi
coronati di castelli e di villaggi; più in la l'Etna enorme, col capo bianco
tinto di rosa, che sovrasta al mar Jonio, e par che s'avanzi per immergervi il
fianco; a destra e a sinistra quasi tutta la costa orientale della Sicilia, una
successione infinita di curve, che sembra la ripetizione ritmica d'un pensiero
gentile, dietro al quale il vostro sguardo va da un lato fino a Siracusa,
dall'altro fino a Messina; e questa doppia immensa fuga di seni, di promontori,
di boschi, di paesi, di giardini ride sopra la bellezza d'un mare e sotto la
bellezza d'un cielo di cui non può dare idea la parola
umana.
Chi può maravigliarsi che davanti a
un tale spettacolo l'Imperatrice di Germania abbia lasciato cadere a terra un
diamante senza avvedersene?
Questo mi disse quello stesso custode
del Teatro che trovò il diamante fra i ruderi vicini alla porta e che lo riportò
all'Augusta
Signora. Ed egli stesso mi riferì,
con alterezza di cittadino
Taorminese, un motto che aveva udito
il giorno innanzi da una bizzarra signora straniera incantata del panorama:
motto ch'io metto qui come suggello al mio povero tentativo di descrizione. ‒
<<Credo poco all'Inferno; ma credo al Paradiso perchè l'ho visto... ed è
questo>>.
Eppure davanti a quel <<paradiso>>
io pensavo ad altro.
Ricordavo una scena che avevo vista
la sera innanzi: di un signore coi capelli bianchi, arrivato all'imbrunire a
Taormina, in carrozza; al quale erano andati incontro ragazzi del popolo,
studenti, operai, cittadini d'ogni classe, e l'avevano accompagnato fino
all'albergo, chiamandolo per nome, tendendo le mani verso le sue mani e
gittandogli delle rose. E dietro quel ricordo me ne venivano
altri: dello stesso viaggiatore che
avevo visto arrivare a Messina, a Palermo, a Catania, a Siracusa, accompagnato
anche là da una folla di ospiti festanti, che lo salutavano come gli ospiti di
Taormina, con quella stessa espansione d'affetto filiale e fraterno, con quegli
stessi accenti in cui vibrava la voce del cuore, con parole che facevano
spuntare le lacrime in altri occhi oltrechè nei
suoi.
Buono e semplice popolo! Gentile e
amabile gioventù!
Cosi caldamente innamorati d'ogni
bell'ideale che amano ed onorano anche chi ne abbia fatto loro balenare appena
un vago riflesso con poca arte e con malsicura coscienza; così ingenuamente
generosi che ingrandiscono e abbelliscono con l'immaginazione uomini e cose,
credendo che sia loro virtù intrinseca quello che essi mettono in loro di
proprio! Ma v’erano altri sentimenti delicati in quelle dimostrazioni. Tutta
quella gioventù sapeva che quel suo ospite aveva sofferto dei grandi dolori, e
lo festeggiava per consolarlo; pensava,vedendogli i capelli bianchi, ch'egli non
aveva più lungo
tempo da vivere, e voleva che la sua
vita fosse coronata da una delle più profonde e dolci soddisfazioni ch'egli
avesse potuto mai desiderare, gli voleva lasciar nell'anima un ricordo che gli
desse impulso a lavorare ancora infaticabilmente fino agli ultimi suoi anni;
prevedeva che in quella cara terra egli non sarebbe ritornato mai più, e voleva
che gliene rimanesse una immagine più bella, più cara ancora di quella che
n'aveva riportata quarant'anni innanzi, al tempo della sua prima giovinezza.
O cari fanciulli del popolo, operai,
studenti, buoni amici sconosciuti d'ogni età e d'ogni ceto, ospiti affettuosi e
giocondi, come egli ha ben capito e sentito la gentilezza del vostro intento, e
che profonda gratitudine ve ne serberà in cuore fin che gli anni e l'infermità
non gli abbiano spento l'ultimo barlume di memoria delle
giornate luminose e felici che ha
trascorse sotto la bellezza incantevole del vostro cielo e in mezzo alle
vestigia gloriose della vostra storia!