E' Peloro che da il nome alla punta estrema della Sicilia da oriente, porta dell’isola sfogo celeste della suprema e nobile citta’ di Messina, dimora di Nettuno, Orione e del gigante Peloro. Manifestazione limpida e pura di prodigio naturale, liturgia del Cristo e del divino cosmo. Magia e incontro tra mari di natura differente, divisione di sentimenti, speranze, paure e sogni. Capo Peloro e’ tutto questo e molto altro. Catena montuosa amena e dolce, che coccola Messina fino dagli albori della sua primordiale e ancestrale storia. Archetipo di celestiale creazione. Dal seme del drago nacque Peloro a Tebe, ma e’ qui in questo luogo ricco di prodigi che cercò e vi ritrovo la sua più precisa collocazione. Il gigante buono che tiene in soggezione Tifeo, mostro mitologico malvagio che vuole cancellare e distruggere la Sicilia, ma il grande Peloro ormai da millenni lo tiene sotto il suo giogo e con l’aiuto di Colapesce nulla e’ perduto, ma la speranza in eterno vive. Peloro che semanticamente deriva dal greco, significa "prodigio". E come dice il suo nome mostra davvero il suo eterno e mai effimero splendore e a chi viene dal continente e dal mare nostrum, così ioni e tirreni lo abbracciano in un nascosto e implosivo, ma allo stesso tempo seducente e silenzioso sguardo. Nessuno può sottrarsi al suo fascino mitologico, ad un luogo così carico di significati originari e primi. Lì, in quel sito vi è la gemma, la pietra più preziosa di Messina e di tutte le genti, visibile dai medesimi colli, dalla zona sud, da quella nord, ma anche dalla vicina Calabria, immobile ed instabile al tempo stesso, ma sempre resta lì in questa sua costanza mutabile. Capo Peloro vero prodigio naturale.
A chi solca lo Stretto Capo Peloro offre una visione di tracce sovrapposte, di orme più antiche e nobili, recenti e popolari. Ricalcando queste impronte comincia un viaggio, ampio nel tempo quanto nello spazio, per tentare di restituirci almeno un’eco di quelle forme e di quelle presenze ormai perdute e che disperatamente noi messeni cerchiamo. Indietro, indietro nel tempo prima ancora della civiltà greco-romana ritroviamo le nostre radici attraverso testimonianze dirette e indirette, i poco noti ritrovamenti, le notizie non ufficiali. Poi la marea ci spinge lentamente in avanti, alla ricerca attraverso forme, colori, sapori, suoni, ricordi, tracce, di quello che potrà essere il nostro futuro sol che lo vogliamo. Chi conosce Peloro e lo ha dentro è inevitabilmente attratto in questo vorticoso inebriante turbinio di colori e profumi conosciuti e sempre nuovi. A chi non è di questi luoghi, ma viandante e forestiero ne viene a contatto rimane avvinto, attratto, affascinato e dentro scopre quella attraente curiosità di scoprirne e conoscerne la storia, spesso seppellita nella sabbia.
E il mito racconta e si intreccia con quello della creazione della Sicilia
stessa…
La fabula parte da
lontano, da tre ninfe che dopo aver deciso di fare un viaggio e aver portato con
sè, da ogni angolo del mondo i doni che la terra offriva, nel tornare a casa
scoprono uno specchio di mare di indicibile bellezza. La magia le incanta ed
esse nel disporsi sull'acqua nelle tre direzioni lasciano cadere, nel lembo di
mare così circoscritto, pugnetti di terra conservati nel cavo della mano - dando
vita a capo Pachino, capo Peloro, capo Lilibeo (luoghi che accoglieranno i
sepolcri di Ecuba, del "Pelota" di Annibale e della Sibilla) – e lì spargono
fiori, frutti e bacche raccolti in ogni dove. Le tre ninfe, nel racchiudere
l'isola nella geometrica espressione del triangolo, consegnano alla Sicilia
l'appellativo di Triquetra, di Trinacria, con cui si suole anche identificare il
più antico simbolo dell'isola: le tre gambe disposte a raggera. Simbolo
mediterraneo per eccellenza, la trikeles è il rimando del divenire perenne,
l'alternarsi del tempo nel mito dell'eterno ritorno delle prigenie stagioni:
primavera, estate, inverno.
Tanta generosità elargita in un solo pezzo di terra, andava custodita,
tutelata, difesa, protetta. Da qui l'assunzione, al centro del simbolo, della
testa della medusa che, nel racconto epico, riflessa sul clipeo di Athena,
consente a Perseo di combattere il mostro e di recidergli il capo. Se il feroce
ghigno delle sue fattezze suggerisce di porla all'ingresso del regno degli
Inferi, per dissuadere i nemici, per scoraggiare gli invasori, non diversamente
la Sicilia che, nel rimando, intende esorcizzare il pericolo, ammonire con ugual
terrore coloro che intendono portarle guerre, saccheggiarla, dominarla. Non è un
caso se da tutte le vicissitudini che hanno interessato questa terra, l'isola si
sia sempre sollevata, scrollandosi di dosso tiranni e conquistatori.
Come le spighe di grano che si flettono al vento che passa, ma che si
risollevano non appena questi si placa. In questo scenario di incomparabile
bellezza, come spiegare le messi nei campi, lo scuotimento della terra, i grandi
massi affioranti dalle profondità marine, i gorghi insidiosi che inghiottono gli
uomini?
Capo Peloro è l’origine della Sicilia. Zona di rara bellezza, scenario unico al mondo si trova alla confluenza dei due mari, Ionio e Tirreno, uno blu cobalto e l’altro verde giada, gorgheggianti di “refoli” nelle sue correnti e controcorrenti che bagnano la Sicilia e la Calabria in questo tratto vicinissime. Questo fiume a forma d’imbuto è lo Stretto di Messina. Chi osserva e vive questo luogo si immerge nella sua magia attraverso la capacità di apprezzarne i colori, le correnti, i paesaggi al variare delle ore del giorno e del succedersi delle stagioni, le antiche tradizioni legate al mare, i venti che vi soffiano perennemente, le calmerìe ed infine il mito. Quel mito che si intreccia e si fonde che viene narrato da ignoti naviganti e da sommi poeti, quel mito che profondamente e misteriosamente identifica questo naturale spartiacque. Peloro per la sua stessa forma come la prua di una barca guida la Sicilia nel suo viaggio attraverso i secoli e attraverso le civiltà, tutto lì è magico, esoterico e mitologico: i laghi, le barche come petali di fiori sparse sulla sabbia infuocata dal sole, il faro, il pilone, le spadare che fendono il mare alla ricerca di quel pescespada al quale gli abitanti di questa terra hanno attribuito intelligenza e sentimenti umani. Questi luoghi appartengono al vissuto dei nostri avi e di ciascuno di noi e descrivono emozioni, richiamano le nostre più antiche memorie, rivivono il sogno e il mito, la realtà e l’esistenza e racchiudono le sensazioni, le ambiziosi, le frustrazioni e i sogni di questa Terra.
Ancora una volta ritroviamo il Mitico fondatore di Messina Orione poichè strettamente collegato ad egli è il mito di Peloro, Omero ce lo tramanda come un suo epiteto. Altri autori ci narrano che la punta (capo Peloro) fu formata da Orione che vi costruì un tempio al padre Poseidone.
Un'altra versione ci racconta che il promontorio prese il nome da un pilota della nave di Annibale. Il celebre condottierro convinto di essere stato ingannato e condotto in un golfo senza uscita (sembrando unite le coste di Sicilia e Calabria) uccise il nocchiero della sua nave che si chiamava Peloro e lo precipitò in mare. Resosi ben presto conto del fatale errore, il comandante cartaginese gli intitolò il promontorio e gli elevò un tumulo e una statua che doveva servire da segnale ai naviganti.
OVIDIO PUBLIO NASONE
METAMORFOSI
LIBRO TREDICESIMO
L'isola
protende nel mare tre punte:
una, Pachino, è rivolta verso gli Austri che portano le piogge;
Lilibeo è esposta al tepore dello Zefiro, mentre Peloro
guarda verso le Orse che mai s'immergono nel mare e verso Borea.
Qui si dirigono i Teucri e, sul far della notte, a forza di remi
e col mare a favore, la flotta attracca sulle spiagge di Zancle.
La sponda destra è infestata da Scilla, la manca dall'irrequieta
Cariddi: questa inghiotte e rivomita le navi travolte,
quell'altra ha un ventre nero circondato di cani feroci,
ma viso di fanciulla e, se non sono tutte invenzioni le cose
che ci tramandano i poeti, un giorno fu davvero una fanciulla.
Tucidide
La guerra del Peloponneso
LIBRO IV
In questo canale i Siracusani e gli alleati si videro costretti, per proteggere una nave da carico che effettuava la traversata, a sfidare a battaglia, forti di più di trenta unità da guerra, ormai al tramonto, sedici triremi attiche e otto di Reggio. Sgominati dagli Ateniesi rientrarono a tutta forza, dopo aver perduto una nave, così come furono in grado, ognuno ai propri alloggiamenti: e gli uni ripararono a Messene, gli altri a Reggio. Era calata la notte sul teatro dello scontro. Dopo questa azione i Locri sgomberarono dai confini di Reggio, mentre le flotte di Siracusa e degli alleati, concentrandosi al promontorio Peloro, nel territorio di Messene, vi rimanevano alla fonda.
Publio Virgilio Marone
ENEIDE
Trad. di Annibal Caro
LIBRO TERZO
Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrirà l'angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l'isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l'onde. È fama antica
che questi or due tra lor disgiunti lochi
erano in prima un solo, che per forza
di tempo, di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose
può de' secoli il corso), un dismembrato
fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtò, tanto róse, che l'esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
e i campi e le città, che in su le rive
restaro, angusto freto or bagna e sparte.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un gran baratro è questa, che tre volte
i vasti flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
stassene insidïando; e con le bocche
de' suoi mostri voraci, che distese
tien mai sempre ed aperte, i naviganti
entro al suo speco a sé tragge e trangugia.
eravam di voltar le vele a dietro,
ecco che da lo stretto di Peloro,
ne vien Bora a grand'uopo, onde repente
a la sassosa foce di Pantagia,
al megarico seno, ai bassi liti
ne trovammo di Tapso.
Massimo Mastronardo